Veniamoci incontro, troviamo un valido compromesso per entrambi, il tutto all’insegna di un fine comune. Checché se ne dica, una negoziazione cosiddetta win-win non si otterrà mai. Un perfetto equilibrio non potrà esistere; non accade neppure in natura figuriamoci seduti a un tavolo e nel pieno di una trattativa: economica. Magari, al termine di quest’ultima, una volta accostate le sedie e dopo le rituali strette di mano, i contendenti si congederanno convinti di aver “vinto” nei confronti della controparte, ma, dopo, mestamente, il singolo “vincitore” (apparente tale) chiuso in se stesso ammetterà di aver portato a casa un risultato oltre il quale non si poteva andare: talvolta insufficiente.
Da qui, il classico rapporto cinquanta e cinquanta solo ideale, e solo teorico, ma sempre citato e decantato nei molti trattati di negoziazione, vivrà un calo a favore di una delle due parti in gioco. Questa è la realtà mentre tutto il resto è solo storytelling. E proprio di storytelling, in queste ultime ore se ne deve fare a meno, il meno possibile: assolutamente.
In questi giorni il presidente del Consiglio Mario Draghi è stato impegnato nelle consultazioni con le Parti sociali. Prescindendo dalla modalità adottata (in presenza o a distanza), quanto emerge è sostanzialmente questo: da una parte abbiamo gli storici “datori di lavoro” rappresentati da Confindustria (mediante il Presidente Carlo Bonomi) che tra i suoi rilievi pone l’attenzione su alcune «necessità urgenti per le imprese: liquidità, patrimonializzazione, ristori, lavoro», specificando come «le misure emergenziali varate nel 2020 hanno alleviato i colpi della crisi, ma hanno altresì determinato un forte aumento del debito delle imprese». Inoltre, nota da non sottovalutare, giunge un monito: «Sulle imprese industriali grava inoltre la sensibile crescita dei prezzi delle materie prime che riducono ulteriormente i cash flow».
Sul versante opposto, invece, troviamo i rappresenti sindacali di Cgil, Cisl e Uil. Da quest’ultimi le richieste sono più che giustificate ed essenzialmente nell’interesse del lavoratore; a corollario, però, rispetto al passato, si chiede un maggior coinvolgimento in questa particolare fase della vita del Paese e con specifico riferimento al Pnrr (Piano nazionale di rilancio e resilienza) ovvero: «Il presidente del Consiglio e il ministro dell’Economia ci hanno anticipato alcuni punti. Abbiamo chiesto di non allontanarsi dai contenuti della Commissione, innovazione, digitalizzazione, sostenibilità ambientale, innovazione energetica, politiche sociali, sanità, scuola, sud. Vogliamo essere coinvolti in una discussione sui progetti, vogliamo capire i risultati attesi e soprattutto le ricadute economiche. Le parti sociali devono essere coinvolte perché vogliamo seguire passo passo» il Recovery plan. Questo quanto dichiarato da Luigi Sbarra, segretario della Cisl (fonte Ansa).
Oltre a quest’ultima esigenza, è ovvio, prescindendo da altre tematiche affrontate dai singoli rappresentanti sindacali, come si sia anche trattato di un elemento imprescindibile o meglio dire “l’elemento” prioritario sul tavolo: bloccare eventuali licenziamenti o per lo meno posticiparli il più possibile nel tempo. E qui potrebbe sorgere un problema nella negoziazione. La famosa e sopracitata mancanza di equilibrio tra le parti.
Premesso che nessuno ha nulla da obiettare contro alcun lavoratore e il suo destino professionale, è anche giusto sottolineare come oggi, rispetto al passato, stiamo tutti affrontando una situazione “atipica”. Le aziende, i lavoratori, e le stesse sigle sindacali, si trovano in un mondo inesplorato e, per tale motivo, è impensabile ripresentare le storiche e reiterate azioni che si sono avvicendate nei numerosi decenni della storia economica nazionale. Osservando quando dichiarato dal Presidente di Confindustria, le aziende (ovviamente non tutte) stanno registrando una crisi di liquidità reale sui propri conti economici (rif. «riducono ulteriormente i cash flow»); questa situazione rappresenta un’assenza oggettiva, una mancanza reale del cosiddetto fieno in cascina, l’evaporazione delle riserve, delle giacenze di conto corrente: insomma, mancano i soldi a chi deve pagare. Rispetto al passato, l’attuale “vita aziendale” non fa più i conti con le cosiddette strategie di taglio di costi del personale, ottimizzazione dei processi o altro ancora. Oggi, l’azienda, con il suo “datore di lavoro” in pectore, non riesce a “dare” né il lavoro, né i soldi perché lui stesso è in attesa di ricevere quest’ultimi. La colpa non è di nessuno.
Qualcuno potrebbe obiettare riversandone la responsabilità in capo allo Stato; bene, lo Stato, la Patria, sta agendo da mesi (magari poco tempestivamente è vero) nell’interesse di noi tutti. Le cifre sono a conoscenza di tutti o almeno di chi le vuole conoscere. Tornando al ruolo dei sindacati: nessuno, e lo ripeteremo infinite volte ancora, nessuno, obietta il loro modo di agire o le loro giuste richieste. Ma, è pur vero che, tenuto conto dell’attuale stato di crisi (irrisolta), le corrette richieste debbano essere sottoposte alle varie controparti con modalità e risultanze diverse rispetto alla tradizione del passato. La mancanza di tale cambiamento in coloro che devono fare l’interesse del lavoratore (sindacato) potrebbe comportare una pericolosa deriva. Al sindacato si chiede (umilmente) un cambio di rotta: un adeguamento dovuto ai tempi? Un aggiornamento delle modalità di attuazione delle proprie politiche? Lasciamo a voi la definizione. Quello che sembra oggi necessario è stato detto: cambiare. Un giusto e obbligato mutamento che, in assenza di esso, allora giustificherebbe un paradossale assioma: agire solo per avere una tessera in più a danno di un lavoratore in meno sapendo bene (molto bene) che tutto questo non rappresenta una negoziazione o una trattativa, ma, nella sventurata ipotesi, in una mera mercificazione dell'”essere umano” (prima) e dell'”essere lavoratore” (dopo).
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