In due occasioni diverse – intervenendo prima alla festa dei 120 anni della Fiom e poi in tv a Coffe Break su La7 – il Segretario generale della Cgil Maurizio Landini è tornato sulla questione del sindacato unitario. Ancora una volta, ha affermato parole importanti che, più o meno, suonano così: “Le ragioni storiche, politiche e partitiche che portarono alla divisione tra i sindacati italiani non esistono più”.



Che le ideologie siano morte è un fatto, che gli apparati lo abbiano compreso resta un problema aperto. Del resto, il sindacato è un baluardo della Prima Repubblica. E questa unità – che da diversi anni è ormai quotidiana – deve trovare delle formule concrete per assumere, anche, qualche sembianza di innovazione.



Nonostante gli indicatori di ripresa economica che lasciano cautamente sperare per il futuro prossimo, il lavoro sta attraversando una fase critica per fattori concomitanti:

1) il lavoro si trasforma a partire dalla sua organizzazione: l’emergenza pandemica ha fatto decollare il “lavoro digitale” – e questo è un bene -, ma il ritardo del sistema nella regolazione del cambiamento è sostenuto;

2) vi è il problema serio di ricostruire, molte aziende – soprattutto le microimprese, quelle più refrattarie al cambiamento – nel post pandemic si giocano la loro sopravvivenza: molte di queste chiuderanno e ciò significa posti di lavoro persi;



3) vi è il fattore “macchine”, usiamo spesso la parola disruptive per descrivere i fenomeni di innovazione proprio perché questo processo – come diceva il suo grande teorico J. Schumpeter – distrugge ma crea: quindi, anche laddove vi sarà sviluppo, perderemo posti di lavoro;

4) certamente si creeranno posti di lavoro nuovi, ma la nostra debolezza nei servizi di ricollocazione e di politica attiva del lavoro è cronica: non a caso già vediamo quanti posti restano vacanti proprio per la difficoltà di far comunicare domanda e offerta di lavoro.

Sono quattro fattori che in modo diverso, da tempo, stanno mettendo sotto stress la rappresentanza di lavoro e impresa. In particolare, per quanto riguarda lavoro da regolare e politiche attive, il sindacato, in modo unitario, potrebbe fare molto. Per esempio, vi sono numerosi contratti aziendali sullo smart working – e non solo – che nell’anno segnato da lockdown e lavoro a distanza, in modo virtuoso, hanno disciplinato situazioni organizzative in evoluzione; non esiste però un accordo quadro tra Parti sul lavoro in remoto: ciò sarebbe prezioso per la micro e piccola impresa che in queste fattispecie nella migliore delle ipotesi si arrangia; nella peggiore, non sa che fare; ed è spesso in questa situazione di limbo che nascono i prodromi di malcontento e di conflitto.

Per quanto riguarda le politiche attive, il problema della presa in carico dei lavoratori è molto serio: chi ha perso il lavoro, non è da buttare; semplicemente, l’azienda per cui lavorava o ha chiuso o ha qualche problema. Su questo punto bisogna che il sistema faccia un salto di qualità: le persone non devono essere abbandonate – primo perché non è giusto, secondo perché ne abbiamo bisogno -, ma rafforzate nelle loro competenze.

Per fare un esempio su tutti, pensiamo all’industria della mobilità: il motore elettrico ha la metà dei pezzi del motore a combustione; ciò significa meno componenti e meno manodopera per tutta la catena. Più si sviluppa il mercato dell’auto elettrica e meno addetti avremo impiegati direttamente nell’industria dell’automotive. Ma chi si occuperà di infrastrutture e colonnine? I lavoratori in uscita dall’industria dell’auto. Ecco perché è fondamentale che il sistema sia circolare e dinamico.

Nello scenario presente e futuro, lo abbiamo scritto tante volte, è indispensabile un sindacato più contrattuale e meno politico. Un po’ come quello che usciva dalla “Seconda internazionale” (1889-1916), quando si stabilì che i sindacati fossero soggetti autonomi e indipendenti dai partiti e che dovessero perseguire le migliori condizioni di lavoro per i loro rappresentati senza partecipare attivamente, sul piano meramente politico, al processo di trasformazione sociale.

Il sindacato della nuova globalizzazione alle porte avrà queste caratteristiche. Ecco perché, d’altro canto, sbaglia quella sinistra che pensa di ricostruire il fronte con il lavoro e cinghie di trasmissione varie. Vedremo se Cgil, Cisl e Uil – in particolare – saranno capaci di questa trasformazione. Ma la vicenda Google ci dice che i lavoratori, per quanto in forme nuove, continuano a organizzarsi; e che, ciò che non funziona, è il sindacato ideologico.

Twitter: @sabella_thinkin

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