Dopo anni di unità, che tuttavia non ha portato a particolari proposte e condotte innovative, il sindacato si divide sullo sciopero generale del 16 dicembre indetto da Cgil e Uil. Al di là della necessità di riprogrammare la data, per via delle obiezioni sollevate dall’Authority allo sciopero generale, com’è noto, la Cisl ha scelto di non aderirvi preferendo una “manifestazione costruttiva”, prevista per il 18 dicembre, “che punta a migliorare i contenuti della manovra”.
Dal Governo si dicono stupiti. Sebbene nell’ultimo mese, in particolare su tasse e pensioni, le distanze tra esecutivo e Parti sociali sono emerse in modo evidente, è anche vero che le mediazioni non sono mancate, tanto che nella nota della Cisl in cui si rende noto della manifestazione del 18 dicembre si legge che “gli avanzamenti conquistati in questo mese dall’azione sindacale nella Legge di bilancio sono rilevanti e positivi”.
Cosa ha quindi indotto Cgil e Uil a proclamare uno sciopero generale?
La medesima dinamica si è vista all’interno del comparto metalmeccanico, in cui la Fim – rispetto alla situazione in Leonardo – sceglie di scioperare solo localmente, ovvero in quei siti dove sono presenti situazioni occupazionali difficili e non in tutte le realtà produttive del gruppo, opzione condivisa in particolare da Fiom e Uilm.
Naturalmente è lecito dissentire dalla scelta di Cgil e Uil di indire uno sciopero generale in questa fase e in queste condizioni. Le mobilitazioni più recenti, in questo senso, non hanno nemmeno avuto grandi adesioni. È tuttavia piuttosto evidente la marginalità in cui si trovano non solo il Parlamento ma anche le Parti sociali: il Pnrr, per quanto di valore, è scritto tra palazzo Chigi e palazzo Berlaymont; la Legge di bilancio – ma qui siamo alle solite – è proposta dal Governo sentiti i sindacati. Lo stesso Luigi Sbarra, Segretario generale Cisl, quando a fine novembre i sindacati sono stati ricevuti dal capo del Mef Daniele Franco – il principale estensore della manovra – ha detto che il ministro era indisponibile a ricercare soluzioni che modificassero l’impostazione della manovra. Poi, come si diceva, qualche mediazione è stata trovata. Ma è pur vero che le richieste del sindacato erano diverse.
Siamo certamente in una fase di importante riforma dell’infrastruttura Paese: Cgil, Cisl e Uil vogliono poter incidere di più sulle scelte che riguardano il futuro dell’economia e del lavoro. Per questo Cgil e Uil, in questo momento, optano per l’opzione dello sciopero. Vedremo, a ogni modo, se sarà confermato. La Cisl, invece, sceglie un’iniziativa all’insegna della responsabilità.
La posizione della Cisl è interessante e forse ristabilisce quella dialettica vivace che ha sempre segnato il fronte sindacale al suo interno sin dagli albori della Prima Repubblica. In Italia, dopo il Patto di Roma (1944) che sancisce la nascita della Cgil – il sindacato unitario in cui confluiscono e si articolano le tre correnti democristiana, comunista e socialista – inizia quell’esperienza che, pur con le sue trasformazioni, arriva sino ai nostri giorni. Nel 1945 si tiene il Congresso di Napoli e si registra la forte affermazione della corrente comunista e di Giuseppe Di Vittorio.
La Cgil rivendica in particolare l’istituzione di un sistema automatico di aggancio dei salari al costo della vita (la cosiddetta scala mobile) e la nazionalizzazione delle industrie monopolistiche e degli stabilimenti controllati dall’IRI (l’Istituto per la ricostruzione industriale già attivo in epoca fascista). Inoltre, è in quella fase che la confederazione si organizza per categorie; prima di Napoli vi erano solo quattro federazioni nazionali: braccianti, ferrovieri, postelegrafonici e bancari. Successivamente sono state costituite le federazioni nazionali dell’industria metallurgica, tessile, chimica, tipografica, dei trasporti, dei panificatori, dei tranvieri, dei minatori, degli insegnanti.
L’unità della Cgil dura dal 1944 al 1948: in quegli anni svolge un ruolo fondamentale nella ricostruzione del Paese, nella riconversione dell’industria, nella lotta alla criminalità e alla mafia. L’unità finisce nel 1948 ed è l’inizio di un susseguirsi di scissioni: nascono la Lcgil, la Fil, la Uil, la Cisl, la Cisnal, i sindacati autonomi. È solo nel 1950, in particolare con la nascita della Cisl guidata da Giulio Pastore, che si assesta la geografia sindacale così come la conosciamo oggi e che emergono chiaramente le due culture che hanno fatto la storia del nostro Paese: quella che si ispira all’antagonismo (Cgil) – oggi si può ritenere superata l’idea della lotta di classe, anche in ragione di posizioni che ufficialmente provengono da quell’ambiente – e quella che si rifà alla tradizione contrattualista (Cisl) più in linea con la seconda internazionale (1889). Questa tradizione, per quanto meno conflittuale e più collaborativa rispetto a quella dell’antagonismo, resta tuttavia diversa dall’esperienza partecipativa che si è affermata in particolare in Germania.
Mentre la Cgil si connota come sindacato legato al mondo comunista, Giulio Pastore e Mario Romani sono le due figure chiave che imprimono alla Cisl una cultura diversa, distante dal movimentismo politico e molto legata, sin dalla sua fondazione, al sindacato americano: nel 1951, poco dopo la sua costituzione, la Cisl lancia un programma economico generale con il quale chiede al Governo la fissazione di una scala di priorità per le materie prime, l’adozione di misure rivolte a incoraggiare e ad allocare gli investimenti nonché la stabilizzazione dei prezzi. Non solo, si intendono bandire le “agitazioni inconsulte” e realizzare “il massimo di partecipazione”, ritenendo che sia proprio questo a connotare l’efficienza dell’azione sindacale. Ma la parte più interessante del progetto riguarda l’assunzione dell’obiettivo dell’accrescimento della produzione e della produttività – compresa quella del lavoro – a cui legare l’evoluzione delle retribuzioni.
I due mondi si confrontano e competono tra loro sulle principali questioni italiane fino all’uscita di scena di Pastore. È il nuovo segretario della Cisl, Bruno Storti, a ritenere – durante gli anni ’60 – che sia necessario costruire un percorso di unità sindacale, cosa che allontana l’importante figura di Mario Romani. Sono le note vicende del ’68 e del cosiddetto autunno caldo (’69-’70) a creare una situazione del tutto inedita.
Il movimentismo e la rivendicazione si esasperano e succedono due fatti importanti, legati alla categoria più rappresentativa, quella dei metalmeccanici: lo storico contratto del ’69 – che segna la grande ascesa dei metalmeccanici ai vertici del movimento sindacale e, in particolare, di Pierre Carniti – e quello del ’73. Quest’ultimo è molto importante perché, a parte la riforma dell’inquadramento, nell’introduzione della cosiddetta “prima parte” – così definita perché la sua collocazione era nella premessa dei contratti collettivi – introduce una forma, per quanto molto italiana, di partecipazione dei lavoratori alla vita delle imprese: in pratica, i datori di lavoro sono tenuti a informare preventivamente le organizzazioni sindacali – sia a livello nazionale che aziendale – circa le questioni più rilevanti con riguardo all’attività, alle scelte e alle innovazioni dell’impresa. Facendo seguito alle informazioni ricevute, le organizzazioni sindacali possono avanzare richiesta d’esame congiunto; non è quindi riconosciuto un ruolo negoziale, ma un’anticipazione – a livello delle relazioni industriali – di quella concertazione che negli anni successivi diviene prassi nei rapporti tra governo e confederazioni sindacali.
A parte che la partecipazione riguarda qui le organizzazioni sindacali e non i lavoratori (come invece previsto dall’articolo 46 della Costituzione), ma il punto vero è che molti settori del movimento sindacale hanno considerato la partecipazione qualcosa di compromissorio rispetto alla purezza della lotta di classe. Sono gli anni del famoso “compromesso storico”, ovvero della lunga marcia del Pci verso l’area di governo, a partire dal 1972. L’Italia è attraversata da una crisi profonda: un’inflazione devastante fa da scenario a un terrorismo ramificato nei luoghi di lavoro. I sindacati, soprattutto la Cgil, intravedono nel nuovo quadro politico che va delineandosi – il primo governo di solidarietà nazionale, sostenuto dalle astensioni degli alleati storici della Dc e dal Pci, risale al 1976 – un interlocutore in grado di affrontare quelle riforme di struttura rivendicate per anni. È in questo quadro che in primis si registra un cambio di atteggiamento del sindacato che, in modo unitario, si mostra molto collaborativo per arginare la violenza del terrorismo; e che, in secondo luogo, maturano le prime elaborazioni teoriche della partecipazione dei lavoratori, in particolare di Guido Baglioni e Giorgio Ghezzi, seguite da quelle di Marcello Pedrazzoli e Tiziano Treu. Ma resterà, fino ai giorni nostri, una “partecipazione intermittente”, come l’ha chiamata Mimmo Carrieri.
Ma perché oggi è così importante rilanciare la prospettiva della partecipazione dei lavoratori?
Perché senza partecipazione, in particolare organizzativa, non può esserci innovazione: la trasformazione in atto – digitale, ecologica, ed energetica – coinvolge tutti, a ogni livello. Il Pnrr, il programma Green Deal e, più in generale, l’Agenda Onu 2030 segnano, sul piano politico, un cambio nel modello di sviluppo. L’obiettivo del miglioramento delle condizioni di lavoro e delle retribuzioni è centrale nelle politiche europee – si pensi ad esempio, alla direttiva sul salario minimo adeguato e a quella sulle piattaforme che sta per essere emanata – e deve diventare tale anche nell’agenda politica italiana. Tuttavia, non cambieremo il Paese senza la collaborazione tra Istituzioni e le forze più rappresentative della realtà sociale. Servono però anche scelte coraggiose. Quella della Cisl oggi lo è.
Twitter: @sabella_thinkin
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