Perdita della memoria a breve, alterazione di gusto e olfatto, mialgie anomale, caduta dei capelli: sono alcuni degli effetti più frequenti che il coronavirus lascia come tracce nell’organismo a distanza di settimane, se non di mesi. Gli anglosassoni lo chiamano Long Covid e il fenomeno è stato portato a galla da un report intitolato Long Covid: Reviewing The Science And Assessing The Risk, una ricerca che si concentra sui quei pazienti, non pochi, che dopo aver superato il Covid-19 continuano a presentare sintomi debilitanti. Nella ricerca si legge, tra l’altro, che gli “effetti a lungo termine del Covid-19 potrebbero rivelarsi un problema di salute pubblica più grande delle morti causate dal virus”. E in Italia? La sindrome post-Covid che “segni” lascia sui pazienti guariti? Si può parlare di “danni” permanenti? Ne abbiamo parlato con Amedeo Capetti, specialista in Malattie infettive, che dall’11 maggio ha aperto, presso l’ospedale Sacco di Milano, un piccolo poliambulatorio per curare i pazienti dimessi, perché negativi, ma non del tutto “guariti” dal coronavirus. “In cinque mesi – dice Capetti – abbiamo osservato più di 500 persone e il numero è dettato dall’esiguità delle nostre forze: tre medici, a cui poi si sono associati una specializzanda e uno studente di medicina. Ma ancora oggi riceviamo molte telefonate, in gran parte di contagiati a marzo-aprile, e a nessuno diciamo di no, perché il nostro vuole essere un ambulatorio aperto a tutti”.
Per gli anglosassoni si chiama Long Covid, in Italia invece si parla di sindrome post-Covid, cioè sintomi e disturbi lamentati anche a settimane, addirittura mesi di distanza dal contagio. Di cosa si tratta?
È una condizione ancora in larga misura sconosciuta e che pone un sacco di interrogativi. La prima questione è: si tratta di un Long Covid oppure sono degli strascichi simili a quelli, per esempio, della mononucleosi?
La sua risposta?
Partiamo da un dato di fatto: all’interno di una valutazione clinica e anticorpale questi fenomeni li vediamo prevalentemente nei pazienti che hanno generalmente una produzione anticorpale assente o comunque scarsa, tendenzialmente sotto le 50 unità anticorpali per millilitro. All’inizio avevamo la sensazione di vedere più strascichi nei pazienti più gravi, in realtà erano strascichi respiratori che in parte si sono poi risolti, mentre altri tipi di strascichi che si notavano nei soggetti paucisintomatici si sono manifestati in modo più duraturo.
I dubbi di cui parlava all’inizio dove nascono?
Il dubbio nasce dalla domanda: in alcuni pazienti dopo aver rifatto un tampone risultato positivo questi strascichi sono effettivamente correlati a una presenza del virus, che pure solitamente non causa febbre, al massimo delle febbricole, oppure sono soltanto dei sintomi post? Non abbiamo certezze. Oltre tutto, sono positività molto dubbie, perché ho trovato di recente alcuni pazienti debolmente positivi, con il virus che non cresceva in coltura e il loro tampone positivo che tornava rapidamente negativo. È il Covid che si è adattato al loro organismo oppure è un’altra cosa? Al momento non lo sappiamo.
Ma questi pazienti tornano a essere contagiosi?
No, non contagiano e per questo sarebbe molto problematico doverli ancora mettere in quarantena, anche perché in questa sindrome post-Covid è presente molto spesso una componente di tipo ansioso.
Che intende dire?
I pazienti da noi osservati nella stragrande maggioranza dei casi si sono infettati tra l’inizio e la fine di marzo, quando il Covid-19 era un perfetto sconosciuto, anzi le poche conoscenze fino a quel momento acquisite erano state addirittura sovvertite: l’idea iniziale, ventilata da qualcuno, che Sars-Cov-2 fosse poco più che un’influenza era stata spazzata via in modo drammatico. Per cui i pazienti che si ritrovavano con un tampone positivo erano convinti di essere entrati in una sorta di anticamera della morte.
In questi cinque mesi di attività nel poliambulatorio presso l’Ospedale Sacco di Milano in cui avete visitato pi di 500 persone dimesse ma non completamente guarite dal Covid, quali sintomi più diffusi avete riscontrato?
Questa sindrome è stata un po’ trascurata nella prima fase, perché tutti i pazienti avevano la preoccupazione dei sintomi respiratori, che tuttavia nel lungo termine non sembrerebbero essere l’aspetto più preoccupante. Infatti a questi pazienti, dopo una serie di consulti tra colleghi, abbiamo consigliato di fare attività fisica anche energica, in modo da costringerli tutti i giorni a respirare più intensamente e piano piano i loro polmoni si sono di nuovo espansi. Oggi sappiamo che la capacità dei loro polmoni di accogliere ossigeno non è rimasta danneggiata.
Superata questa prima preoccupazione, poi cosa avete scoperto?
Dal secondo mese abbiamo cominciato a vedere un fenomeno vistoso, anche se non così preoccupante. I dermatologi lo chiamano telogen effluvium: una perdita massiva di capelli, che colpisce solo le donne, un 10-15%, provocando un certo diradamento, anche se poi in parte i capelli ricrescono. Fa spavento nell’immediato, è un effetto da stress e da infiammazione, ma non virale. Un fenomeno che nelle infezioni gravi non avevamo mai visto con questa frequenza.
Sono emersi altri sintomi più preoccupanti sulla distanza?
Innanzitutto, la perdita della memoria a breve termine. In molti ospedali dove il post-Covid è appaltato alla medicina del lavoro questo disturbo viene liquidato come forma post-traumatica, ma non sono per nulla convinto di questo. Qui non si tratta di alopecia da stress, perché il sintomo si palesa anche in molti soggetti psicologicamente forti. La gamma dei casi è molto ampia e registriamo diversi effetti invalidanti. In molti pazienti, poi, osserviamo anche casi di anomia, l’incapacità cioè di dare un nome agli oggetti che hanno davanti. Un disturbo che si ripete improvvisamente e frequentemente anche nel corso di una stessa giornata.
La ricerca inglese parla di alterazioni di gusto e olfatto. È così?
Sì, il Covid-19 è accompagnato spesso da questi sintomi, che nel tempo possono anche trasformarsi in cacosmia, un disturbo olfattivo con percezione di odori fetidi, e disgeusia, l’indebolimento della capacità gustativa. Ci sono soggetti che a sette mesi di distanza dall’esordio dei sintomi non ne sono ancora usciti, tanto che cominciano a pensare che non usciranno mai da questi disturbi, che possono provocare nausea e senso di vomito prolungati.
Corrono davvero questo rischio?
A mio avviso è un’ottica sbagliata, anche perché nel tempo abbiamo osservato che il numero di persone colpite da anosmia si riduce.
Altri sintomi invalidanti?
L’ultimo in ordine di frequenza sono le mialgie, dolori muscolari localizzati in singoli muscoli o gruppi di muscoli, ma senza una distribuzione neurogena precisa che ci consenta di mappare il percorso del nervo da cui il virus è passato. Anche gli esami del sangue non denotano nulla. Ed è un sintomo che colpisce soprattutto i paucisintomatici, mai ospedalizzati, con episodi iniziali molto deboli.
La sindrome post-Covid colpisce paucisintomatici e donne. E i giovani?
Anche. Siccome la sintomatologia è molto età-dipendente, i paucisintomatici sono soprattutto persone di mezza età e trentenni.
Adesso la corsa del virus è ripresa. Sono riprese anche le telefonate?
Ancora oggi ci chiamano molti pazienti infettati a marzo-aprile, ma cominciamo a ricevere richieste da qualcuno che si è contagiato a luglio-agosto e nei prossimi mesi penso che avremo la ricaduta di questa nuova ondata in atto.
In questa seconda ondata rischiamo di avere ancora una schiera di malati long Covid?
Sì. Tanto che noi ci stiamo ponendo già la questione se si possa fare qualcosa precocemente, per esempio sui pazienti colpiti da anosmia, perché le mialgie restano ancora un mistero.
Secondo i ricercatori britannici, “gli effetti a lungo termine del Covid-19 potrebbero rivelarsi un problema di salute pubblica più grande delle morti causate dal virus”. Che ne pensa?
Mi sembra un’affermazione un po’ esagerata, anche se concordo sul fatto che le sindromi post-Covid sono un problema.
Che indicazioni si possono comunque trarre per la sanità pubblica? Come si potrebbe intervenire?
La sanità pubblica ha anche la responsabilità di strutturare la ricerca, portando a fattore comune l’attività post-Covid, coinvolgendo in un unico grande spazio équipe polispecialistiche che possano dedicarsi a studiare questa sindrome.
(Marco Biscella)