La chiamano “malattia mentale”, ma se è una malattia, come mai non è trattata come tale? Perché le spese per chi ne soffre sono sempre le minori, in fondo ai budget dei servizi sanitari? Perché le strutture di ricovero, gli specialisti, il personale sanitario che si occupa di queste persone è sempre poco, mal preparato, insufficiente? Perché, per la maggior parte della gente, chi soffre di disturbi mentali è sempre e soltanto una sorta di eccentrico viziato, che non ha voglia di impegnarsi, che non apprezza la compagnia, la risata facile, le pacche sulle spalle? Perché i salotti televisivi sono pieni di soloni della psichiatria che pontificano senza sporcarsi le mani con chi soffre e riempiono le librerie di bestseller pieni di parole ad effetto, si fanno pagare profusamente per un consulto e poi spariscono? Eppure i dati dell’Organizzazione mondiale della sanità dicono che i casi di malattie mentali sono in crescita esponenziale da anni e che nel giro di poco tempo la malattia mentale prenderà il posto di quelle cardiologiche come primo caso di patologia sanitaria al mondo.
La malattia mentale non appare senza spiegazioni, non è come un raffreddore: dietro a ogni caso c’è una storia precisa e un contesto altrettanto preciso. Nella stragrande maggioranza dei casi, essa nasce e si sviluppa in famiglia. Così è stato per Sinéad O’Connor.
Nata Sinéad Marie Bernadette O’Connor, un nome che pagava tributo alla Vergine di Lourdes, a Dublino, nel cuore della (una volta) cattolicissima Irlanda, da genitori cattolicissimi, Sinéad aveva vissuto tutto l’orrore e tutti gli abusi che una religione diventata simulacro di norme, regolamenti moralistici e bigotti, può causare. Famiglia e religione: è lì che si cela il male che ha travolto quella che è stata una delle voci più emozionanti, intense, toccanti e commoventi della storia mondiale della musica.
Se il successo commerciale è legato al brano Nothing Compares 2 U del 1990, scritto per lei da Prince, nel cui video, tutto un primissimo piano del bellissimo volto della cantante, dove a un certo punto una lacrima sgorga dai suoi occhi grandi e profondi, la sua immagine è legata per sempre a un episodio accaduto due anni dopo che scioccò il mondo benpensante.
Era il 3 ottobre 1992, e forte degli oltre sette milioni di copie vendute del suo ultimo disco, la cantante irlandese era stata invitata a uno dei più popolari show televisivi americani, il Saturday night live. Cantò a cappella War di Bob Marley, una canzone di denuncia contro la guerra e per l’uguaglianza tra esseri umani ispirata a un discorso tenuto all’Onu nel 1963 dall’imperatore d’Etiopia Hailé Selassié. Durante l’interpretazione, cambiò le parole finali del testo per fare esplicito riferimento alla questione della pedofilia nella Chiesa cattolica, che da qualche anno era cominciata ad emergere pubblicamente negli Stati Uniti. E strappò di fronte alle telecamere la foto di papa Giovanni Paolo II, dicendo “fight your real enemy“, “combatti il vero nemico”. Il gesto, trasmesso in diretta televisiva, le scatenò addosso le ire non solo del mondo cattolico (come si poteva permettere una brava ragazza irlandese di strappare la foto del papa?) e di fatto le distrusse per sempre la carriera. L’establishment, personaggi come Frank Sinatra (che dichiarò in un concerto che avrebbe voluto prenderla a calci nel sedere), l’attore Joe Pesci, che disse che avrebbe voluto prenderla a pugni, e anche Madonna la coprì di insulti. Erano tempi in cui tacciare la Chiesa cattolica di abusi sui minori era impensabile e vietatissimo, eppure lo stesso Giovanni Paolo II si espresse con toni comprensivi nei suoi confronti.
Pochi giorni dopo, il 16 ottobre, Sinéad venne invitata a partecipare all’evento musicale dell’anno, il concerto tributo a Bob Dylan per i suoi 30 anni di carriera insieme al gotha del mondo della musica. Doveva cantare I Believe in you, una canzone del periodo cosiddetto cristiano di Dylan, una forte e poetica testimonianza di fede in Dio, ma venne accolta sul palco da una valanga di fischi che le impedirono di cantare. Preso il microfono con decisione, declamò ancora una volta War lasciando il palco in lacrime.
Da allora, per tutti, sarà, come avrebbe detto lei, solo una “stupida str…”. Ma lei era una autentica ribelle, una antagonista. Quando, a inizio carriera, un discografico le disse di farsi crescere i capelli che lei portava rasati a zero, per apparire più accattivante nei confronti del grande pubblico, si rifiutò di conformarsi ai tipici standard femminili di bellezza. Non solo. Le chiesero anche di abortire visto che era in stato di gravidanza, cosa che lei rifiutò. “Sei trattato come una persona pericolosa se dici quello che pensi perché l’intero ambiente in cui viviamo dipende dal fatto che tutti accettino questa idea che le cose materiali piuttosto che quelle spirituali rappresentano il successo. Questo è sicuramente qualcosa che vorrei cambiare”, disse una volta. Fin da subito, a inizio carriera, apparve evidente che c’era qualcosa di sorprendentemente originale nel contrasto tra la sua bellezza da elfo delle fiabe e l’immagine da skinhead che rispecchiava una combinazione di vulnerabilità emotiva e ferocia nel suo canto e nel suo modo di scrivere. Per molti, ha rappresentato una sfida cruda e senza paure di fronte a traumi e abusi. L’ammiravamo e la amavamo, ma eravamo allarmati dalla sua fragilità mentale e vulnerabilità: “Sono cresciuta con molti traumi e abusi. Non c’era terapia ai tempi. C’era la musica. E io volevo solo urlare. Poi sono entrata direttamente nel mondo della musica. Non mi sono mai presa il tempo necessario per guarire. Non ero neanche pronta per farlo”, disse
Per Sinéad, la musica non era solamente tutto, ma qualcosa di trascendentale in maniera insopprimibile: “Alcune canzoni, se ci penso, mi fanno piangere. Le registro e poi devo scappare dallo studio. Streets of London è una di queste, adoro quella canzone da quando ero bambina. Una volta mia madre mi ha portato a Londra e un giorno ci è capitato di passare davanti a un pub e c’era Ralph McTell (l’autore, nda) seduto lì a cantarla. In seguito l’ho registrata e sono dovuto correre fuori dalla stanza tre o quattro volte solo per urlare e piangere prima di poter effettivamente rientrare e terminarla”.
Le lacrime che si vedono nel video di Nothing Compares 2 U furono qualcosa di reale, non pianificato, perché dice, aveva associato il testo di una canzone che parlava di amore e di perdita a sua madre, che morì in un incidente d’auto nel 1985 quando aveva 19 anni e con la quale non aveva mai risolto il loro terribile e devastante rapporto.
Le due donne ebbero sempre una relazione complessa e violenta. Il fratello della O’Connor, Joseph, un acclamato romanziere, ha descritto la madre come “una persona profondamente infelice e disturbata” responsabile di “abusi estremi e violenti, sia emotivi che fisici (“Teneva una autentica stanza delle torture in casa e mi ordinava di ripetere continuamente ‘io non sono nulla’ mentre mi picchiava” raccontò la cantante). La situazione si aggravò dopo che i genitori si separarono nel 1975. La sua adolescenza fu travagliata, segnata da assenze a scuola e furti, e a 15 anni fu collocata in uno degli ormai famigerati Magdalene Asylums irlandesi, il Grianán Training Center, una sorta di casa di cura per ragazze disagiate, gestito dalle Suore di Nostra Signora della Carità. Fu proprio una suora a regalarle la sua prima chitarra e incoraggiarla a cantare. “La suora che gestiva il posto mi regalò la mia prima chitarra e mi diede un insegnante di chitarra. Dico sempre: se vivi con il diavolo, scopri che c’è un Dio”.
Incredibilmente, la cantante aveva scoperto di saper cantare in un modo paradossale: quando lo faceva, riusciva a calmare la madre violenta e disturbata (“I miei genitori si sono separati che ero abbastanza piccola e mia madre non era una persona molto sana di mente: era violenta verbalmente e fisicamente. Quando diventava una bestia, riuscivo a calmarla con la mia voce. Ero in grado di usare la mia voce per far addormentare il diavolo”).
La sua carriera musicale ha seguito un percorso tortuoso – un enorme successo pop, album folk, cover, reggae e pubblicazioni religiose – ma non si può negare che i suoi 10 album equivalgono a un consistente lavoro da serio artista impegnato. “Non ho mai voluto essere una pop star. Ero nella musica perché dovevo riprendermi, dovevo togliermi tutta la merda che avevo nel cuore. Gli artisti che ho amato, cresciuti negli anni Settanta, erano molto intimi, scrivevano di emozioni dolorose. Adoravo Bob Dylan, lui non nasconde le parti cattive di se stesso. La cosa che ha cambiato il mio modo di ascoltare musica è stata ascoltare la sua canzone Idiot Wind. Fu come: mio Dio, la musica è un posto sicuro dove puoi mettere tutte le cose che non ti è permesso dire da nessun’altra parte. Significava che non dovevo essere gentile nelle canzoni, potevo essere arrabbiata, potevo essere… qualunque cosa. La verità è che stavo portando un tale dolore che non avrei potuto sopportarlo senza tirarlo fuori”.
Purtroppo per lei non è stato abbastanza. Negli ultimi anni erano famosi i suoi continui post sui social in cui implorava aiuto, chiedeva di consigliarle uno psichiatra, minacciava il suicidio. Alla fine nessuno la prendeva più sul serio, come nella fiaba del ragazzino che grida al lupo. Perché la malattia mentale ti divora, giorno dopo giorno, puoi solo cercare di conviverci, non ne guarirai mai. Chi ne soffre, ha solo bisogno di un abbraccio, ogni tanto.
Negli ultimi anni i suoi atteggiamenti erano diventati scioccanti. Prima era diventata sacerdote di una chiesa cattolica non riconosciuta ufficialmente; poi recentemente si era convertita all’islam. Si era sposata con uno psicologo conosciuto su Internet e si erano lasciati due settimane dopo. Ma il colpo finale è stato lo scorso anno il suicidio del figlio 17enne Shane, un ragazzo con i suoi stessi problemi mentali. Nel suo ultimo post su FB, qualche giorno fa, Sinéad aveva scritto di sentirsi uno zombie in purgatorio da quando lui era morto. “Era l’amore della mia vita, la luce della mia anima. Eravamo un’anima in due parti. Era l’unica persona che mi amava incondizionatamente”.
Per la Chiesa cattolica, Santa Dinfna è la patrona delle persone affette da disagi mentali e neurologici, dei loro luoghi di cura e delle professioni mediche dedicate, nonché delle principesse, delle vittime d’incesto e di stupro, e di chi ha perso i genitori. Come i malati di mente, quasi nessuno si ricorda di questa santa. Per una curiosa coincidenza, Dinfna, vissuta nel VII secolo, era irlandese, figlia di un capo tribù pagano e di una donna devota cristiana. La donna morì giovane e il padre non si riprese mai più, sviluppando turbe mentali. Girò tutta l’Europa cercando un’altra donna che le assomigliasse e quando tornò a casa vide secondo lui che la figlia era bella quanto la madre e, reso folle dal dolore, cercò di sostituirla con lei cercando di abusarne sessualmente. La ragazzina fuggì con il suo padre confessore in Belgio ma il padre la trovò: quando si rifiutò nuovamente di concedersi a lui, la decapitò.
Adesso chi soffre di disturbi mentali oltre a Dinfna ha un angelo custode a prendersi cura di loro. Il sacrificio di Sinéad O’Connor non è stato vano. C’è la razza umana e poi ci sono gli irlandesi, che sono tutta un’altra storia.
In una sua canzone, 8 good reasons, aveva detto: “Sai che non sono di questo posto, vengo da un tempo diverso, da uno spazio diverso ed è davvero brutto essere bloccati in un posto a cui non appartieni”.
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