Sinisa Mihajlovic, allenatore del Bologna, si è raccontato in una lunga intervista al Corriere della Sera parlando dei temi affrontati anche nella sua autobiografia “La partita della vita”. Il titolo è molto significativo, d’altronde Sinisa Mihajlovic ha davvero tanto da raccontare: dalla guerra nell’ex Jugoslavia alla leucemia, fino ad Arkan e al futuro. “Ammalarsi non è una colpa, succede e basta. La verità è che non sono un eroe e neppure Superman. Parlavo così perché avevo paura”, ha ammesso Mihajlovic con grande sincerità al Corriere della Sera. La malattia, col senno di poi, ha avuto anche un effetto positivo sull’allenatore serbo: “Volevo dare un messaggio. Non ci si deve vergognare della malattia. Bisogna mostrarsi per quel che si è. Volevo dire a tutte le persone nel mio stato, ai malati che ho conosciuto in ospedale di non abbattersi, di provare a vivere una vita normale, fossero anche i nostri ultimi momenti. Chi non ce la fa, non è un perdente. Non è una sconfitta, è una maledetta malattia. Adesso mi godo ogni momento, prima non lo facevo e davo tutto per scontato. La malattia mi ha reso un uomo migliore“, ha infatti aggiunto Mihajlovic, che oggi si definisce “un uomo che cerca di vedere il bicchiere mezzo pieno. Gli applausi e l’affetto mi hanno aiutato molto. Ma ora basta. Non vedo l’ora di tornare a essere uno zingaro di m…”.



SINISA MIHAJLOVIC A CUORE APERTO NELLA SUA AUTOBIOGRAFIA

Sinisa Mihajlovic riesce dunque anche a scherzare sull’offesa che lo ha accompagnato per tutta la vita calcistica. Anche qui, l’onestà di certo non gli manca: “Sono un uomo controverso, divisivo. E ci ho messo del mio. Ma se faccio una cazzata, mi prendo le mie responsabilità”. Come dimostra quando si tocca un argomento delicato come quello della sua amicizia con la Tigre Arkan, uno dei protagonisti della tragedia delle guerre nella ex Jugoslavia degli anni Novanta: “All’inizio forse ero attratto dal fascino del male, ma poi diventammo grandi amici. Non condividerò mai quel che ha fatto, ma non posso rinnegare un rapporto che fa parte della mia vita”. Anche sull’errore che rimpiange di più nella sua carriera, Mihajlovic ha una precisazione da fare: “Ottobre 2000, Lazio-Arsenal di Champions League. Da quando gioco a calcio ho dato e preso sputi e gomitate e insulti. Succede anche con Vieira. Gli dico ‘nero di m…’ Tre giornate di squalifica. Sbagliai, e tanto. Lui però mi aveva chiamato zingaro di m… per tutta la partita. Per lui l’insulto era zingaro, per me era m… Nei confronti di noi serbi, il razzismo non esiste”. Un altro episodio molto significativo riguarda lo scoppio della guerra in Jugoslavia, perché indica con drammatica chiarezza l’odio che si respirava in quegli anni: “Finale di Coppa di Jugoslavia 1990. Perdiamo contro l’Hajduk Spalato, gol di Boksic. Prima della partita, nel tunnel che porta al campo, Igor Stimac, croato, mio compagno di stanza nella nazionale giovanile mi dice: ‘Prego Dio che i nostri uccidano la tua famiglia a Borovo’, che è il paese dei miei genitori”.

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