La nuova generazione di berlingueriani che prende in mano le sorti del PDS dopo la svolta del 1989 ha maturato una propria idea di come conquistare la “legittimità” a governare il Paese. Per loro non è solo necessario togliersi di dosso l’etichetta di ex-comunisti, verso cui persiste ancora in ampi settori della classe dirigente del paese una discriminazione, ma occorre fare qualcosa di più. La scelta – per certi aspetti mai esplicitata – è quella di condurre più avanti la strategia che fu del compromesso storico, rielaborandola e rendendola più moderna, ma rimanendo fedeli all’ispirazione originaria, quella di una “via italiana” al governo del paese. È una scelta audace: invece di intraprendere quella che appariva la via maestra, e cioè una ricomposizione delle forze del socialismo democratico, uniformandosi alla realtà della sinistra di governo di mezza Europa, in Italia ci si muove nella direzione opposta. Il terremoto giudiziario del 1992 e la fine dei tradizionali partiti della prima repubblica rendono possibile, agli occhi del giovane ed ambizioso gruppo dirigente del PDS, una “terza via”.



L’azione della magistratura aveva risolto il “nodo” del difficile rapporto con il Partito Socialista. La fuga di Craxi in Tunisia e la scomparsa di fatto del PSI dovettero apparire come un monito ai due giovani leader che avevano ereditato il comando del partito, Massimo D’Alema e Walter Veltroni. Quasi un presagio, un segnale premonitore. Non restava che portare a conclusione il lavoro iniziato da Berlinguer nel 1973 e rilanciare in forme nuove il “compromesso storico”, riannodando i fili di quell’alleanza strategica con il mondo cattolico, andata in crisi dopo il rapimento e l’uccisione di Aldo Moro. Così per il PDS gli interlocutori privilegiati divennero nell’ordine: la sinistra democristiana, settori del cattolicesimo liberale, lo stesso Vaticano, alcune figure storiche della grande impresa privata, “Commis d’État” come i manager delle aziende pubbliche cresciuti nell’IRI e gli uomini della Banca d’Italia.



La tesi era rimasta sostanzialmente la stessa di quella espressa da Berlinguer dopo i fatti del Cile. Per quei giovani leader formati proprio in quegli anni quelle idee erano (forse lo sono ancora oggi) dogmi: nonostante la fine della guerra fredda, la scomparsa dell’Unione Sovietica e il superamento degli accordi conclusi dopo la Seconda guerra mondiale, in Italia per la sinistra non era possibile governare con il 51% dei voti. L’Italia doveva conservare – per non suscitare la reazione di forze potenti e occulte – il suo ruolo in Europa e nella NATO. E la sinistra doveva garantire senza ombra di dubbio le sue alleanze e il suo posto nell’Occidente. Del resto i dirigenti ex-comunisti erano ora più affascinati da quello che stava accadendo in America piuttosto che dal rischio di farsi fagocitare dalla stantia tradizione socialdemocratica europea.



L’analisi della sconfitta del 1994 e dell’improvvisa ascesa e successo di Berlusconi si concentrò quindi sui limiti dell’esperienza dei “progressisti”, che pure per una intera stagione politica aveva mietuto successi, soprattutto sul piano locale. Si rafforzava in quei mesi l’idea che per vincere era indispensabile l’apporto del centro moderato e cattolico. Così come si faceva strada l’idea che bisognasse affidare la leadership della coalizione ad un rappresentante moderato. La responsabilità della sconfitta venne attribuita interamente ad Achille Occhetto e alla sua indisponibilità, dettata dall’illusoria aspirazione a guidare il futuro governo, a un accordo con il movimento di Mario Segni. La scelta di andare divisi al voto aveva evidenziato che senza un accordo tra ex comunisti ed ex democristiani non c’era possibilità di fermare l’avanzata della nuova destra berlusconiana.

Tra il ‘94 e il ‘96 il PDS visse due anni di grandi trasformazioni. Dopo il voto europeo Occhetto fu costretto alle dimissioni. Il fondatore del nuovo partito, l’uomo della svolta della Bolognina era giunto al capolinea, e pochi anni dopo sparì dalla scena politica italiana. Era arrivato per il vecchio gruppo dirigente del PCI il momento di cedere il testimone ad una nuova generazione. Il Consiglio Nazionale del luglio ‘94 elesse a sorpresa Massimo D’Alema nuovo segretario. A sorpresa, perché le consultazioni dei membri della direzione e dei vertici delle organizzazioni territoriali svolte da Piero Fassino – in segreto grande elettore di Veltroni – avevano dato un risultato diverso. Era fondato il sospetto che in qualche misura chi aveva condotto le consultazioni le avesse manipolate. Ma il voto segreto degli oltre 600 membri del consiglio nazionale non lasciò dubbi su chi dovesse portare a termine la transizione dal vecchio al nuovo partito.

Nei discorsi di presentazione delle candidature, D’Alema e Veltroni avevano indicato due strade alternative da percorrere. Veltroni aveva apertamente indicato nella specificità della situazione italiana la ragione per cui era necessario costruire qualcosa di diverso dalle socialdemocrazie europee ormai in crisi. Era tra i due il più esplicitamente filoamericano. La recente elezioni di Bill Clinton, il giovane e dinamico neopresidente democratico, aveva ridato fiato a chi sognava la ripresa di una nuova frontiera dopo anni di reaganismo. Nel suo discorso erano già presenti tutti gli elementi costitutivi del futuro PD e dell’idea di dare vita, come i democratici negli Stati Uniti, ad un partito maggioritario, cioè comprensivo di tutte le componenti democratiche e progressiste.

D’Alema rispose con un discorso diverso. Riportare il PDS nel solco del socialismo europeo era una scelta obbligata, e il modo e la forza con cui argomentò la sua scelta convinse gran parte dell’area riformista guidata da Napolitano a votarlo. Non tutta, perché ci fu chi – come Macaluso e Morando – rimase sostenitore di Veltroni e della sua idea di partito e dubbioso della sincerità delle posizioni di D’Alema, che era stato uno dei più accaniti e polemici interpreti della linea di conflitto con il PSI, e nella sua gestione del partito era sempre stato un temuto avversario dei riformisti.

Dopo l’elezione a segretario D’Alema lavorò per convincere i suoi interlocutori interni ed esterni che era effettivamente diventato l’uomo del dialogo. Strinse accordi con quello che restava della DC (rimase famoso un pranzo con Buttiglione a Gallipoli a base di pesce), e convinse Bossi alla rottura con Berlusconi. Poi lavorò d’intesa con Scalfaro affinché Lamberto Dini, da ministro del Tesoro del governo Berlusconi, accettasse di diventare presidente di un governo tecnico. Lo stesso Dini poi divenne leader di un partito moderato di centro alleato con il centrosinistra e ministro degli Esteri del nuovo governo. Infine fu di D’Alema la scelta principale, quella di Romano Prodi a candidato premier dell’Ulivo.

La scelta di Prodi fu operata da D’Alema con convinzione. Anche se ancora oggi egli è considerato l’uomo che manovrò per far cadere il suo governo nel 1998 per prendere il suo posto. Resta una cattiveria che non rende merito alle scelte compiute da D’Alema segretario del PDS tra il 1994 e il 1998. Romano Prodi era la quintessenza del compromesso storico 2.0. Uomo cresciuto nella sinistra democristiana aveva avuto ruoli sempre più importanti raggiungendo i vertici dell’impresa di Stato, fino a diventare presidente dell’IRI negli anni Ottanta. Un intellettuale cattolico apprezzato da molti, con un considerevole prestigio internazionale, e con in più capacità manageriali che ben si addicono ad un uomo di governo.

Forse in D’Alema la scelta di Prodi era implicitamente legata ad una idea semplice ma velleitaria: a Prodi sarebbe toccato il governo del paese, l’amministrazione, a lui, D’Alema, sarebbe rimasta il compito di fare politica, definire la strategia. Del resto, era il segretario del principale partito di governo, l’artefice della nuova maggioranza, l’architetto che in meno di due anni aveva ribaltato le sorti del conflitto con Berlusconi. Per questo decise di dedicarsi al riassetto istituzionale del paese, accettando di presiedere la Bicamerale. D’Alema diede evidentemente poco peso alla volontà di Romano Prodi di non lasciare ad altri le principali decisioni politiche. Intanto questa era la convinzione profonda degli uomini a lui fedeli, guidati da Arturo Parisi, che aspiravano a trasformare “L’Ulivo” in un partito e che preferivano dialogare con Veltroni, diventato nel frattempo vicepremier.

È durante l’esperienza del primo governo Prodi che prende corpo l’idea di dare vita al PD. Le componenti che maggiormente si impegnarono nella costruzione di quel partito corrispondono grosso modo a quelle che hanno sostenuto Prodi e avversato D’Alema. Ma ancora prima della nascita del PD, lo scontro che porterà alla caduta del governo Prodi e alla nascita di quello presieduto da D’Alema nel 1998, determinano le alleanze future e in qualche modo segnano ancora oggi le scelte del principale partito della sinistra.

D’Alema arriva al governo dopo il fallimento della bicamerale e la rottura con Rifondazione Comunista. Il primo governo presieduto da un ex comunista, ironia della sorte, nasce grazie al ruolo decisivo nella maggioranza di due democristiani doc come Cossiga e Mastella. Dal 1998 al maggio del 2000 toccheranno a D’Alema scelte difficili, come il sostegno alla guerra nel Kosovo, la nomina di Prodi come presidente della Commissione Europea, l’elezione di Ciampi come nuovo Presidente della Repubblica. Quest’ultima decisione provoca una rottura profonda e definitiva con Marini e gli ex-DC che consideravano quella carica il giusto bilanciamento ad un presidente del consiglio di sinistra. La sconfitta alle regionali del 2000 furono solo il pretesto per liberarsi di D’Alema e accelerare la conclusione della sua esperienza di governo.

Da quel momento la storia prende un’altra piega. È la rivincita di Veltroni e dei suoi uomini più fidati. A lui vanno la leadership dei DS e della coalizione, da sindaco di Roma guida la nascita del PD nel 2006 e nel 2008 è il candidato premier per il centrosinistra. Con lui i Democratici di Sinistra rinunciano al loro ruolo di forza espressione del socialismo europeo. La stessa iscrizione dei DS (e del PD poi) al PSE viene di fatto sospesa. È una delle condizioni poste dagli ex democristiani e dai prodiani per entrare nel PD. Non possono accettare di stare in un partito che aderisce ai principi del socialismo europeo. Fassino negozia una soluzione ibrida e pasticciata, da metà dentro e metà fuori, che rende anche plasticamente evidente che il PD nasce senza una famiglia europea di riferimento. La cosa non ha alcun senso e chiunque si trovi a passare per Bruxelles si rende conto della contraddizione – più propriamente, del limbo – in cui sono finiti i parlamentari DS.

La cosa sarà risolta – paradossalmente – proprio da un ex democristiano come Matteo Renzi. Appena eletto segretario nel gennaio del 2013, Renzi prende senza consultare nessuno la decisione, che manda su tutte le furie gli uomini che l’avevano fin a quel momento impedita, di aderire al PSE mettendo fine all’imbarazzante situazione in cui si era cacciato il PD. Storia alquanto eloquente di quello che abbiamo fin qui raccontato. La timidezza – per usare un eufemismo – con cui i dirigenti della sinistra italiana hanno gestito il percorso (dal 1993 al 2013 sono trascorsi appena vent’anni!) per ricongiungersi con la storia e le scelte del socialismo democratico europeo è imbarazzante. Un comportamento privo di qualsiasi logica e motivazione. E che per certi versi persiste ancora oggi. L’attuale gruppo dirigente de PD è davanti ad una contraddizione enorme a cui andrebbe messa la parola fine. Ma chi si prende la briga di sbrogliare questa matassa?

(4 – continua)

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