Sinner non è un campione. Il campione, da che mondo è mondo, riesce a fare cose che pochissimi riescono a fare. Sinner, invece, è un fuoriclasse: la differenza con il campione – che è già tantissimo, diciamoci la verità – è che un fuoriclasse riesce a fare cose che a nessun altro riescono. Da un punto di vista tennistico, sarà il tempo a dire quali delle due facce è Sinner: nel frattempo, non è male essere diventato il primo italiano a vincere gli Australian Open. Tutti, in questi giorni, ne stanno esaltando la maestria, la grazia, l’incantesimo del suo gioco. Domenica, forse, a Jannik è riuscita una cosa che a pochissimi altri – Marco Pantani, Alberto Tomba, Valentino Rossi – era riuscita: incollare alla tv, ad un tablet, ad un cellulare un popolo di gente che, come me, non capisce più di tanto di tennis. Non male come risultato: è del genio, dell’artista riuscire nella sfida di far battere il cuore della gente rendendo familiari e affettuose cose che, fino a poco prima, erano poco più che semplici comparse. O poco più.



Il fatto, poi – mentre stava seduto in cima al mondo – di essersi ricordato che, lassù, è arrivato grazie alla libertà lasciatagli da mamma e papà di giocarsi la vita come meglio credeva, l’ha reso di un fascino folle. C’è stata quasi l’impressione, ad un certo punto, che il trofeo che aveva tra le mani fosse passato in secondo piano rispetto al garbo della sua umanità. All’amabilità della sua educazione.



Il vero capolavoro, però, lo doveva ancora sfornare. Come un cecchino ha aspettato, forse, il momento perfetto – quando il mondo intero si mostrò cotto di lui, al punto da stendergli tappeti ovunque – per regalare una delle lezioni più belle su che cosa sia lo sport. A farne le spese, l’Amadeus nazionale che, forse con un po’ troppa veemenza, l’ha inchiodato ad un invito gravoso: partecipare al prossimo Festival di Sanremo. Che coloro ai quali ancora piace non indugiano a ribadire che non è solo musica e canzoni. È molto di più: il racconto in note di quasi un secolo d’Italia, un pezzo dell’arredamento della Rai.



Tra l’altro era stato invitato al netto di nessuna pressione: come un giocatore al quale vien offerto di scendere in campo solo per prendersi gli applausi, senza sporcarsi le scarpe. Al dritto di Amadeus – che si era protetto le spalle anticipando che, anche in caso di rifiuto, “avrebbe fatto il tifo da casa” – Jannik ha risposto con un rovescio da fuoriclasse. L’ironia di chi sa unire intelligenza e pragmatismo: “Faccio il tifo da casa per Sanremo (…) Quando dovrei andare a Sanremo, sarò già a lavorare ed è quello che mi piace fare. Quindi non andrò a Sanremo”. Il sì e il no: le due piccolissime parole che Pitagora riteneva essere quelle che chiedono maggiore riflessione. L’impressione è che questo ragazzo, avendo avuto la possibilità di giocarsi la sua libertà fin da piccolo, abbia le idee chiare su chi voglia diventare: se il più grande tennista (possibile) della storia o uno che, servendosi del tennis, si è aperto le porte che ti traghettano nelle logiche della fama e della popolarità.

In questo quattro di picche al carrozzone di Sanremo c’è, forse, l’autentica lezione di Jannik Sinner: “Siccome mi sto ancora costruendo, come uomo e come sportivo, non voglio abitare spazi che possono diventare un rischio”. Oltre a portarlo fuori dal suo piccolo mondo, Sinnerlandia. Che non è Mirabilandia o il Paese dei Balocchi ma il mondo di chi, nato con un talento smisurato, ha capito subito che non gli basterà per scrivere la storia: sarà necessario fare di tutto per non addormentarsi sul talento. Come tante volte è accaduto, accade nella storia dello sport, dell’umano. Tra un sì e un no, c’è tutta una vita: la leadership di un campione sarà quello di sapere dire no quando la maggioranza ti spingerebbe a dire sì. La cosa fantastica è che alla voce della maggioranza qualcuno riesca ancora, ogni tanto, ad anteporre quella vocina interiore che non ti tradisce mai: “Tu sei nato per stupire il mondo giocando a tennis!”. Sanremo non è il male da evitare: è che Jannik ha scoperto un meglio da custodire. Lui e la sua racchetta.

 

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