Il grande David Foster Wallace aveva teorizzato l’esistenza dei “momenti Federer”, momenti in cui, guardando giocare il tennista svizzero “spalanchi la bocca, strabuzzi gli occhi e ti lasci sfuggire versi che spingono tua moglie ad accorrere da un’altra stanza per controllare se stai bene”. Sono momenti in cui “ti rendi conto dell’impossibilità di quello che hai visto fare”. Momenti paragonabili, per il grande Wallace, ad un’esperienza religiosa. Dopo quello a cui abbiamo assistito tra venerdì e ieri vien da chiedersi se non esistano (fatte le debite proporzioni e con la massima riverenza per quegli inarrivabili, il tennista e lo scrittore) anche dei “momenti Sinner”.
Proviamo a circoscriverne le possibili caratteristiche. In questi tre giorni, tifosi accaniti o semplici adepti dell’ultima ora, abbiamo assistito a qualcosa di fulmineo: un tennista ha dato l’assalto all’olimpo e lo ha conquistato con un passo rapinoso. Ha rubato il tempo ai suoi avversari, li ha detronizzati senza lasciar loro lo spazio per organizzare una difesa o un contrattacco. Djokovic prima e Medvedev poi lo hanno visto scappar via imprendibile come uno di quegli stambecchi che vediamo dal basso arrampicarsi su pareti verticali: il paragone ci sta visto che il nostro, com’è ben noto, viene dalle montagne (per la precisione è nato a San Candido ed è cresciuto a Sesto Pusteria) e ha nelle gambe l’agilità di quegli stambecchi. Il “momento Sinner” è dunque questo passaggio mozzafiato con il quale senza tentennamenti ma senza la minima boria si è proiettato in una dimensione che sino a tre giorni fa sconfinava con l’impossibile. Perché apparteneva alla sfera dell’impossibile, dell’inarrivabile il pensiero di vincere lo slam australiano, da 20 anni terreno di conquista della favolosa triade, con Djokovic ancora affamato in campo. Sinner ha travolto loro, e ha travolto un po’ tutti noi.
Ma il “momento Sinner” coincide anche con un’ora e un minuto precisi: venerdì ore 21:55 di Melbourne (e 7:55 italiane). L’incontro con il re Djokovic è al quarto set. Il ragazzo d’assalto è in vantaggio di 2 a 1 ma si porta dentro il peso di quel tiebreak perso sanguinosamente, dopo aver sprecato anche un match point. Il campione con i suoi artigli è lì di fronte a lui, pronto ad azzannarlo. Al quarto game Djokovic è alla battuta ed è avanti 40 a 0: con la tranquillità di chi sente quel gioco in tasca sceglie di fare un dropshot velenoso, di quelli che stroncano gambe e morale agli avversari. Sinner parte come una scheggia, prende la pallina e porta a casa quel punto, un piccolo 15, tanto bello quanto inutile. Ci eravamo chiesti un po’ tutti in quel momento: perché sprecare energie con una rincorsa così, in un gioco ormai perso? Il seguito ha dato ragione a Sinner, che punto per punto è risalito dal baratro di quel game e ha strappato nel modo più inaspettato la battuta a chi su quel campo aveva vinto già dieci volte. Da lì si è trovata spalancata la strada per la vittoria. Quel 15 vinto e apparentemente ininfluente è stato un autentico “momento Sinner”: per lui ogni punto è sempre storia a sé. Non ha né un prima né un dopo. È un tutto sul quale concentrare ogni energia fisica e mentale. Tanti di questi momenti, Jannik.
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