C’è un nesso stretto tra l’esperienza dei sinodi e la fede. Storicamente i sinodi nascono come assemblee di fedeli convocate dalle autorità ecclesiali competenti per discernere, in clima di comunione, su questioni di fede, di disciplina o di prassi pastorale. Detto in altro modo: i sinodi venivano convocati in situazione di contestazione o conflitto, che chiedevano di riappropriarsi della fede in clima di armonia e comunione. Si tratta di procedure per riguadagnare la vera fede all’interno della comunione ecclesiale.
Tale sfida a riappropriarsi della fede trasmessa non significava reinventare o ricreare la fede, aggiornarla in base ai gusti dell’epoca o della cultura. Il discernimento veniva fatto in base alla “fede dei Padri” o “degli Apostoli”, cioè in base alla Tradizione. Ma è importante comprendere bene in cosa consisteva la sfida ovvero il riappropriarsi della fede. “Appropriarsi” di qualcosa significa farlo proprio, riconoscerlo come un bene per sé, qualcosa che ci riguarda e in cui ne va del proprio bene.
Così funziona la verità del Vangelo. È qualcosa che si deve incarnare nella vita delle persone, qualcosa di “immanente” nell’esperienza di vita che si va facendo. Insomma, si tratta di una grazia che lavora in noi. Non solo una verità che cade dal cielo, donata da Dio con autorità (grazia esteriore). Ma una verità che scava nel profondo della vita, nelle relazioni e nelle speranze e le illumina dall’interno (grazia interiore).
Questa dinamica di appropriazione non è anzitutto preoccupata di reinventare la fede o di riplasmarla in base a chissà quali gusti o urgenze. Vuole piuttosto creare quelle condizioni di comunione, fraternità e amicizia nelle quali si accende l’evidenza del bene che c’è in gioco nella fede trasmessa, così da capire sempre meglio come viverla nel tempo che ci è dato. Il problema quindi non è di cambiare la fede, ma di appropriarsene al modo di un bene concreto, nelle condizioni in cui si vive. A questo livello l’autorità competente (gerarchica) è chiamata a convocare i sinodi e a guidare il discernimento con procedure corrette e custodendo l’integrità della fede trasmessa, contro semplificazioni o accentuazioni unilaterali, determinate proprio dai conflitti (come in tante polarizzazioni odierne dell’opinione pubblica).
Il bisogno espresso da papa Francesco di affiancare, o meglio di contestualizzare il lavoro del Sinodo dei vescovi con un processo sinodale più diffuso o addirittura con uno “stile sinodale” permanente, che coinvolga tutti i battezzati protagonisti della missione della Chiesa, deriva dal fatto che la trasmissione della fede nella società complessa non è più lineare e immediata. È di nuovo un problema di appropriazione della fede e non di contenuti o norme da modificare. Una volta il passaggio dalla dottrina alla vita era più semplice, data l’uniformità del costume e dei modelli culturali di comportamento. Si trattava di applicare le verità, le norme e i valori a certe situazioni concrete della vita, che erano abbastanza uniformi e condivise.
Oggi, invece, nelle società avanzate non sempre c’è un modo di vivere e di interpretare i ruoli sociali e le scelte esistenziali che appaia uniforme e pacifico. Cosa significa essere padre e madre, sacerdote o insegnante, medico o politico… ma anche cosa significa diventare adulti, plasmare la propria identità, dare senso alla sofferenza… non è più così pacifico e socialmente riconosciuto. Ne deriva il bisogno di ascoltare da più persone quali possibilità e quali rischi, quali risorse e quali fatiche ci possono essere in determinati ambienti e situazioni nel vivere in pienezza la fede: come ci si può appropriare della fede in quei contesti?
Si intuisce come lo “stile sinodale” non abbia l’intenzione di favorire una trasformazione parlamentare e democratica della fede e della Chiesa, quasi che la verità della fede dipenda ormai dal consenso della maggioranza. Non è questo ciò che c’è in gioco nello “stile sinodale”. Nemmeno si tratta di raccogliere lamentele, malumori, mormorazioni contro altri per gli insuccessi e gli scandali che hanno ferito il corpo ecclesiale e compromesso la credibilità della Chiesa. Si tratta di raccogliere la sfida a discernere luoghi e modi di appropriazione convinta ed efficace della fede nel contesto contemporaneo.
Di fatto, lo stile sinodale non intacca le istituzioni sinodali (a livello locale e universale), coi loro statuti e le loro competenze. Sia gli eventi sinodali, con le loro norme statutarie, che i processi sinodali locali o universali, mantengono il loro significato e la loro autorità (si veda utilmente il documento della Commissione Teologica Internazionale del 2018 su La sinodalità nella vita e nella missione della Chiesa, con le opportune distinzioni tra sinodalità e collegialità, tra stile sinodale, processi e istituzioni sinodali ed eventi sinodali). Lo stile sinodale affianca le altre istituzioni e offre contributi, dando voce ad altri luoghi o figure, in cui pure risuona la voce dello Spirito, nella speranza di scoprire dove soffia la sua mozione efficace in ordine all’evangelizzazione di ogni cuore e di ogni ambito di vita.
Possiamo identificare a questo livello un’altra funzione dell’autorità: quella di essere testimone di una ricchezza di esperienza dell’umano e della sua verità. È autorevole una persona o un’istituzione che mostra una capacità di dare significato alla vita e alle cose della vita, di leggere la realtà nel suo vero senso. Proprio in un orizzonte di senso grande si potranno poi affrontare le questioni di disciplina, fede, scelte pastorali che interpellano oggi con urgenza. Ma non sarà solo un approccio giuridico, canonistico, disciplinare, applicativo o deduttivo, bensì uno sguardo spirituale, immanente alla situazione concreta, empatico e quindi tipico di una Chiesa “esperta di umanità”, grazie alla sua relazione vitale con Cristo.
Se è vero tutto questo, non si deve leggere il Sinodo in atto mettendosi nella comoda posizione di una divisione e polarizzazione dei ruoli del tipo: difensori della tradizione o innovatori progressisti; applicatori rigidi delle norme o interpreti lassisti delle difficoltà individuali. La sfida non è sul versante della fede trasmessa, ma su quello della sua possibile appropriazione oggi. Ciò significa che la fede ha a che fare con l’esperienza della realtà, con le cose della vita, poiché rappresenta qualcosa da vivere adesso. Da qui nascono le domande del Sinodo e la ricerca condivisa di quei temi, valori prioritari, esperienze di grazia che rendono ancora percepibile il Vangelo come un bene per gli uomini e le donne del nostro tempo.
C’è un’ultima obiezioni legata al funzionamento di questo Sinodo: è lecito e sensato fare un evento sinodale che pone domande, fa obiezioni e quindi interroga la prassi pastorale della Chiesa e la sua dottrina? La Chiesa gerarchica non è interprete autorevole della fede trasmessa che come tale esige obbedienza? Piace ricordare qui che il senso dell’obbedienza è quello della disponibilità all’opera di un Altro. Questa disponibilità diventa collaborazione, cooperazione attiva e quindi chiede impegno, coinvolgimento. Tale coinvolgimento attivo non può non domandare per capire e solo così potrà collaborare all’opera. L’obbedienza non è priva di domande. Interpretando il dialogo dell’Annunciazione, sant’Ambrogio sottolineava, nel suo commento al Vangelo di Luca, la differenza tra le domande piene di dubbi di Zaccaria e la domanda di Maria: “Come avverrà questo, dal momento che non conosco uomo?”. Maria chiede per capire come può obbedire, chiede per partecipare all’iniziativa divina, non per dubitare e prendere le distanze. Il Sinodo può essere l’occasione per porre domande che aiutino a capire meglio ciò che Dio sta facendo, così da rinnovare l’obbedienza ossia la cooperazione all’opera di un Altro. Si tratta di una grande sfida, che però è la sfida del Vangelo di Cristo e della vita nuova in Lui.
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