La posizione non è certo una delle più comode: chinarsi, porger l’orecchio (magari mettendoci pure una mano a mo’ di scodella per evitare le interferenze), prestare ascolto all’altro. (S)comoda per chi ascolta, perché la gente (tribù alla quale appartengo) non ascolta, aspetta solo il suo turno per poter parlare. Pure per colui al quale si presta ascolto: “Da quanto tempo uno non mi ascoltava? Io mi ero rassegnato a non venire più ascoltato”. Siccome “parlare è un bisogno, ascoltare un’arte” (W. Goethe), già agli albori del pontificato il Papa Francesco aveva gettato l’amo: Attenzione, gente – dice in Evangelii gaudium – guardate che è troppo facile dare risposte alle domande che nessuno si pone. Detta così, una rasoiata rasoterra, com’è nello stile di questo pontificato.



Una maniera un po’ gentile per dire: “Vi accorgete, oppure no, che stiamo diventando un’enclave nella quale, se uno viene da fuori, non capisce cosa stiamo dicendo?”. Pare che, com’è pratica, l’invito sia stato declinato: ancora le stesse risposte a medesime domande mai fatte. Il Papa è testardissimo, non molla: insiste, accelera e indice un Sinodo che coinvolga la Chiesa tutta. Pietro avverte che la pandemia – letta da una angolazione diversa – ha sferrato quel magico colpo di Grazia ad una certa forma di cristianesimo ancora in vita grazie ad una sorta di accanimento terapeutico. Una sorta di fede, la nostra, fatta di parole indolenti, gesti rachitici, forme arcaiche che non fan più vibrare la curiosità della gente. Tacerlo ancora?



Tutto caduto, frantumato, sotto le cannonate di un nemico invisibile. Resta la fede, non è poco: perché la fede – ce lo ricorda Bernanos – non si perde mai: è un dono, come tale mai viene revocato dal Donatore. Alla fede può capitare di peggio: che (re)sista in vita, ma cessi di plasmare la vita. La tal cosa è assai più funerea: è vivere, agire, sognare portandosi appresso un peso morto, qualcosa che procura più peso che sollievo. Un giogo mai dolce e poche volte fruttuoso. 

Tutti in classe, dunque! La campanella la suona Pietro stesso: è un’assemblea d’istituto, una riunione sindacale, l’apertura di un’unità di crisi. Tra i corridoi delle parrocchie, è troppo facile raccontarsela, raccontare noi chi siamo noi stessi. La sfida attraente, però, è all’opposto: ascoltare dagli altri, da chi vive all’esterno, cosa fiutano di noi, qual è la capacità (botanica) di attecchimento della nostra testimonianza, la fascinazione delle pie pratiche di pietà, l’attrattiva di una storia come quella di Gesù di Nazareth. Abbiamo perso gente per strada: noi abbiamo perduto loro, non il (comodissimo) contrario. Li abbiamo perduti nella maniera più elegante: mettendo loro soggezione, facendoli sentire stranieri a casa propria, pensando che dove la fatica di vivere è all’opera lì ci sia per forza una riluttanza allo Spirito. Invece che fiutar nella crepa l’agguato di un Dio prossimo all’azione.



Un Sinodo, insomma: perché la Chiesa torni ad essere una casa. E la casa è quel luogo dove tu puoi (ri)entrare un sacco di volte senza doverti truccare, sentirti fare dieci milioni di domande. Il luogo nel quale l’interrogatorio su chi sei, cos’hai fatto-non fatto sotto le lenzuola, perché non ti sei comportato in un altro modo lascia spazio ad una porta socchiusa, ad una sedia preparata h24 attorno al tavolo, ad un bicchiere d’acqua per allungare la minestra sul fuoco. Il rischio, però, è dietro l’angolo (e il Papa lo sa bene): che il Sinodo diventi una sorta di picnic nazional-parrocchiale, l’occasione per dirci che, sotto sotto, la situazione non è così drastica come la raccontano, che c’è gente ch’è messa molto peggio di noi: che il buon Dio baderà da sé a rimodernare la Chiesa, che è il mondo che deve ascoltare Cristo, non i cristiani ascoltare il mondo. Le scuse, insomma, sono già sedute, pronte all’assalto: tenteranno di ridurre il tutto ad un semplice maquillage, un piccolo ritocchino estetico. Per poi poter dire: “Noi ci abbiamo provato, sono gli altri che non ci hanno ascoltato”. L’offesa non sarebbe tanto al Papa, quanto allo Spirito Santo. Che, per chi crede, non è un avversario qualsiasi in fatto di ritorsioni d’amore.

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