Era il 15 marzo 2011 quando a Deraa, nel sud-ovest della Siria, alcuni giovani scrissero sui muri: “È arrivato il tuo turno, dottore”. Il riferimento era al presidente Bashar al Assad, laureato in oculistica. I ragazzi vennero arrestati e da quell’episodio scaturì la prima manifestazione di protesta, che in meno di due anni avrebbe gettato il paese in quella che papa Francesco ha giustamente definito “una delle più gravi catastrofi umanitarie del nostro tempo”. Dietro al fallimento delle Primavere arabe l’insulsa politica dei paesi occidentali e l’incapacità di capire, come già successo in Iraq, che il nostro concetto di democrazia non si può applicare con la forza nei paesi arabi, che della società civile hanno tutt’altra idea. La Siria, pur sottoposta a una dittatura decennale in cui la libertà di stampa e l’opposizione politica erano state censurate, era infatti un paese che viveva nella convivenza e nella pace fra le diverse comunità sociali e religiose, in totale libertà. “Fu chiaro sin da subito che dietro le prime manifestazioni pacifiche c’era un progetto di distruzione del sistema siriano alimentato da potenze straniere e che sarebbe sfociato nella violenza” ci ha detto padre Firas Lutfi, ministro francescano della Regione San Paolo (Giordania, Libano e Siria). Dieci anni dopo, dice ancora padre Lutfi, “restano mezzo milione di morti, sei milioni di profughi, altrettanti sfollati, due milioni e mezzo di bambini che non possono andare a scuola e una povertà estrema”.



Quando sono cominciate le prime manifestazioni contro il regime, che cosa avete pensato? Immaginavate che si sarebbe arrivati a questa tragedia che ha sconvolto la Siria?

I primi giorni tutto il paese fu coinvolto in queste grandi manifestazioni di massa, che ben presto si trasformarono in scontri armati. Si percepiva che sarebbe sfociato tutto in tragedia, anche perché c’era un clima particolare intorno a quella che è stata chiamata Primavera araba e capivamo che le cose non erano così semplici come si voleva far credere.



In che senso?

Si capì che c’era un progetto che andava avanti da tempo per rovesciare il governo in carica e, mentre questo progetto avanzava, diventava tutto sempre più complicato, fino ad arrivare a una guerra che ha distrutto centinaia di migliaia di vite umane e l’intero paese. Quello che è diventato, ed è tuttora, il dramma più eclatante del secolo.

Dieci anni dopo, dalla Libia all’Egitto fino alla Siria, tutti i paesi coinvolti nelle Primavere arabe vivono ancora situazioni drammatiche. L’Occidente ha sostenuto quelle proteste senza però capire la realtà profonda dei paesi arabi, è così?



Sì. I cambiamenti devono rispettare l’indole di ogni singola società e d’altra parte non si possono cambiare i paesi capovolgendo la società in modo violento. È più appropriato sostenere, anche se ciò richiede maggiore fatica, un processo di evoluzione e non di rivoluzione. L’Europa e gli Stati Uniti hanno agito pensando a sostenere le rivoluzioni, un rovesciamento radicale che ha causato ferite che non si potranno rimarginare se non fra molti anni. Oltre ai morti e al patrimonio storico di Siria e Iraq andato distrutto, c’è l’aspetto umanitario, in cui siamo ancora coinvolti, a partire dai bambini: affamati e costretti a vivere al freddo, non possono andare a scuola e rimangono quindi senza un’educazione.

È stato un fallimento collettivo quello dell’Occidente?

Dai risultati si giudicano i fatti. I paesi occidentali non hanno fatto altro che peggiorare la situazione, spargendo benzina sul fuoco, perché un fuoco che covava c’era già. In Oriente ci sono tante etnie e religioni diverse. Invece di incrementare e sostenere la convivenza e l’unità hanno fatto il gioco sporco, venduto armi e condotto una politica dannosa per i propri interessi economici.

Qual è stato il momento peggiore in questi dieci anni?

Certamente quando il paese è stato sconvolto dalla crisi umanitaria: le sanzioni europee hanno reso la Siria una grande prigione, dove ogni otto ore muore un bambino siriano. E poi abbiamo una economia bloccata, con un alto costo dei beni essenziali che rende difficile una vita dignitosa. Hanno rubato le risorse come il petrolio e il gas e poi hanno lasciato un paese completamente in rovina. E non sappiamo quando potrà finire.

Il Papa continua a rivolgere il suo pensiero “all’amata e martoriata Siria”, chiedendo che “la convivenza ritorni a fiorire”. Cosa ci vuole per far rinascere una nuova Siria?

Fermare le sanzioni internazionali, impedire che paesi esteri continuino a mettere le mani in Siria, favorire un processo di riconciliazione, avviare quello che il Papa ha fatto ad Abu Dhabi, incontrando i leader islamici e con l’enciclica Fratelli tutti. Dialogo e convivenza sono i valori del Vangelo. Occorre far sì che i paesi che hanno distrutto la Siria ne avviino adesso la ricostruzione, parlare faccia a faccia con tutti loro: dai paesi europei che hanno venduto armi alla Turchia ai paesi del Golfo, che hanno sostenuto i terroristi. Papa Francesco più volte ha chiesto chi finanzia i terroristi: bisogna che i nomi vengano allo scoperto, è una questione molto seria che va affrontata e risolta.

(Paolo Vites) 

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