La bomba siriana appena deflagrata è un capitolo mediorientale della guerra a pezzi che oramai da diversi anni interessa più parti del mondo. Paesi emergenti stanno sfidando la globalizzazione a trazione statunitense. Il 7 ottobre 2023 è stato il casus belli. Ma l’incendio si è propagato ben oltre Israele e Gaza, coinvolgendo attori e palesando convergenze strategiche per spartirsi la Siria. Un territorio che per la sua posizione e la sua composizione Sun Tzu definirebbe conteso, dove è sconsigliato combattere e dove i molti contendenti si dovrebbero accordare. Questo è successo, non appena gli equilibri dei vecchi padroni si sono incrinati.
La prova sta nella velocità degli eventi. Nessuna rivoluzione può essere così repentina quanto poco cruenta se non accontenta tutti i contendenti e se non è accuratamente pianificata. Al Jawlani è un terrorista cresciuto all’ombra di personaggi come Osama Bin Laden, Ayman al-Zawahiri e Abu Bakr al-Baghdadi, e guida Hayat Tahrir al-Sham (HTS) e una galassia di gruppi meno conosciuti. La propaganda ce li presenta come “ribelli” ma sono dei tagliagole, e sarà interessante vedere come la Turchia e il blocco arabo li sapranno controllare.
Il caos indotto in Siria è una cortina fumogena affinché ogni attore possa dispiegare la propria narrativa cercando di dissimulare i veri obiettivi. La stabilità, la prosperità e la libertà di quel territorio sono legate all’equilibrio geopolitico che le potenze intervenute nel conflitto produrranno sulla testa dei siriani. Non è un gioco. Ci sono macerie da smaltire e un Paese da ricostruire. I siriani sono tuttora sconvolti e sorpresi dal lampo di guerra che ha condotto HTS al potere, dopo l’evaporazione del regime degli Assad che ha governato per cinquant’anni con pugno di ferro. Com’è stato possibile?
Le motivazioni vanno analizzate senza preconcetti. Solo pochi Paesi al mondo hanno vera sovranità, intesa come capacità di perseguire gli interessi nazionali senza condizionamenti esterni. Gli alawiti sono franati anche a causa della corruzione e della totale dipendenza da aiuti esterni. Ma soprattutto il crollo è stato dovuto allo sfilamento degli alleati russi e iraniani. Prima del tracollo, Assad aveva rifiutato l’invito turco a far rientrare 4 milioni di fuoriusciti politici. Aveva anche declinato offerte economiche dai Paesi del Golfo in cambio di un allontanamento dall’Iran. La Russia, seppur tatticamente vincente in Ucraina, ha bisogno di concentrare le forze per un ultimo sforzo prima che arrivi Trump. Quasi tre anni di economia di guerra hanno diminuito le capacità militari russe. È di oggi (ieri, ndr) la notizia di un accordo tra USA e Turchia per la Siria. Questo porrà fine alla presenza russa in Siria e forse anche in Libia. L’Iran ha provocato il 7 ottobre sottovalutando la tremenda reazione di Israele. Sotto embargo dal 1979 e costretto al contrabbando di petrolio attraverso l’Iraq per mantenere i servizi vitali, il Paese ha problemi di tenuta interna che impediscono la proiezione esterna. Pertanto ha dovuto seguire il ripiegamento dei russi.
La Turchia sembra emergere, ma in realtà, con un’economia che arranca e un’inflazione al 48%, ha dovuto attendere l’ordine e le condizioni dei suoi sponsor nel Golfo per agire. Erdogan ha anche ricevuto un altolà dagli USA per il rispetto dei curdi.
Israele ha avuto il compito più arduo, dovendo tenere due piedi in una scarpa. Unica democrazia del quadrante, ha dovuto fare i conti anche con l’opinione pubblica. Senza indispettire troppo il blocco sunnita, ha scatenato una rappresaglia senza precedenti contro Hamas e contro Hezbollah; ha umiliato il nemico persiano. Gerusalemme ha dovuto mollare l’osso libanese quando il tempo era maturo per il cambio di regime.
I Paesi del Golfo, con un occhio al prezzo del petrolio, hanno gestito Turchia e Israele affinché l’Iran uscisse dalla Siria dopo che Assad non si era prestato al cambio di alleanza, ma hanno dovuto attendere le condizioni propizie per l’uscita russa dal quadrante. Sullo sfondo ci sono sempre USA e Cina, entrambi presi a non scoprire le carte geopolitiche per non avvantaggiare l’avversario, con i primi – gli Stati Uniti – che, indipendenti dal petrolio arabo, cercano in ogni modo di evitare ogni distrazione dal quadrante Indo-Pacifico dove presto o tardi si arriverà alla resa dei conti.
La Cina, che non vede più così vicina la possibilità di sorpasso sugli USA, è impegnata a misurare le capacità dell’avversario e a mantenere la sua narrativa terzomondista per guidare la sfida dei BRICS.
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