La repentina caduta della dinastia Assad segna un terremoto geopolitico per l’intero Medio Oriente. Il vuoto di potere lasciato dal regime trascina la Siria verso un bivio cruciale: da un lato la possibilità di un nuovo e fragile equilibrio, dall’altro il pericolo di una balcanizzazione senza fine, dove il Paese rischia di frantumarsi sotto il peso di conflitti settari e della competizione tra potenze regionali.



Gli oltre tredici anni di guerra civile hanno reso ancora più profonde le divisioni all’interno del complesso mosaico etnico e religioso siriano. La presa del potere del gruppo islamista Hayat Tahrir al-Sham (HTS) di Abu Mohammad al-Jawlani è avvenuta dopo una accurata operazione di rebranding con la quale la fazione jihadista si è presentata ai media occidentali come un forza moderata che ha come unico obiettivo la ricostruzione del Paese. Le promesse di nuove elezioni e di integrare all’interno dello Stato i curdi rafforzano la posizione di chi, come l’Unione Europea, ha visto nel collasso del regime una “opportunità di libertà e pace”, ma i nuovi pericoli per la Siria non arrivano solo dai trasformismi e dalle rivalità interne.



Il rischio di balcanizzazione aumenta con il coinvolgimento delle potenze regionali e internazionali, che non sono intenzionate a rinunciare ai propri interessi strategici. La Turchia di Erdogan continua a mantenere una forte pressione sui curdi nel nord-est siriano, ritenendo un pericolo vitale la creazione di un’entità autonoma che possa sostenere il separatismo curdo entro i propri confini. Israele è entrato militarmente più in profondità nelle alture del Golan, eliminando, al contempo, con massicci attacchi aerei le infrastrutture dell’esercito e la marina militare, rendendo, di fatto, indifeso il nuovo Stato siriano.



Gli Stati Uniti, da parte loro, avvinti nelle loro vicende domestiche, valutano pragmaticamente la possibilità di avviare un dialogo con HTS, tenendo sullo sfondo la lotta all’ISIS. Dal canto suo la Russia, dopo la caduta del suo protetto Assad, si trova alle prese con una missione alquanto difficile: salvare le basi di Tartus e Latakia e quindi la sua credibilità in tutto il teatro mediorientale senza compromettere i sui rapporti con la Turchia.

Il ruolo della Cina aggiunge un ulteriore livello di complessità. Pechino, che aveva costruito una solida alleanza con il regime di Assad, si trova ora a gestire una transizione che potrebbe limitare la sua influenza nell’area. La manifesta sconfitta dell’asse della resistenza sostenuto dall’Iran e l’uscita di scena della Russia potrebbero rappresentare un’opportunità per la Cina, che potrebbe riempire i vuoti lasciati dai suoi alleati proponendosi come il  finanziatore della ricostruzione. Tuttavia, ciò rappresenterebbe un salto di qualità nel coinvolgimento del governo cinese che non ha le capacità di proiezione militari e diplomatiche per un contesto geopolitico volatile come quello siriano. Una realtà che palesa il fatto che il sostegno alla Russia e all’Iran aveva la funzione strategica di nascondere le difficoltà cinesi nel plasmare gli esiti regionali. Sebbene, al momento, la bilancia della storia sembri pendere a sfavore di Russia e Iran, il futuro potrebbe riservare spiacevoli sorprese a chiunque tenti di perseguire ambizioni egemoniche nel complesso scenario siriano.

Israele e Turchia emergono rafforzati dagli sviluppi della fase iniziata l’8 ottobre 2023; tuttavia, nessuna delle due potenze regionali è in grado di farsi garante della stabilità dell’intera area. Una difficoltà che riguarda anche le grandi potenze con aspirazioni globali, come gli Stati Uniti e la Cina. Un nodo gordiano così intricato che nessun soggetto geopolitico ha la forza di recidere. La Siria che è il crogiolo di questa fase di instabilità geopolitica sembra essere lo specchio in cui tutte le potenze regionali e globali si guardano, vedendo restituita un’immagine impietosa che mostra tutte le loro difficoltà.

La debolezza strutturale degli attori coinvolti potrebbe indurli a cercare un nuovo equilibrio regionale basato su un reale multilateralismo, corrispondente, all’interno di ciò che rimane dello Stato siriano, a una governance pluralista e inclusiva capace di tenere assieme le tante realtà del suo territorio. Ma le fasi di radicale instabilità come quella attuale, generalmente, portano ad esiti diversi. Le potenze dell’area sembrano impegnate in un drammatico gioco a somma zero, cercando di sottrarre all’avversario del momento la sfera d’influenza più grande. Un gioco rischioso che non prevede il raggiungimento della stabilità, perché i vincitori di questa fase non hanno la forza per imporre una pace duratura. Al momento, possiamo solo auspicare che l’onere di tracciare un percorso verso una nuova fase di riconciliazione e ricostruzione non ricada esclusivamente sul popolo siriano. La Storia, del resto, ci insegna che talvolta sostenere un popolo a rialzarsi può generare benefici duraturi, assai più proficui rispetto all’armarlo contro un nuovo nemico.

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