Il legame tra Siria e Turchia è sempre più stretto, tanto che al Jawlani, in pratica, governa a stretto contatto con il ministro degli Esteri di Ankara, Hakan Fidan. Non per niente il presidente turco Erdogan, spiega Valeria Giannotta, direttore scientifico dell’Osservatorio Turchia del CeSPI, ha minacciato di intervenire con la forza se qualcuno attenterà all’unità del Paese. Pensa ai curdi, principalmente, ma non è disposto a tollerare l’autonomia di certi territori. Diverso il discorso con Israele, che si è presa una parte del Golan siriano: non ci sarà un conflitto con Tel Aviv, ma la questione probabilmente entrerà nei negoziati per il cessate il fuoco a Gaza e per la pace in Libano.
Erdogan dice che la Turchia è garante dell’unità della Siria: risponde direttamente del nuovo corso politico a Damasco? Pensa soprattutto alle rivendicazioni autonomiste dei curdi o anche ad altre situazioni?
Al Jawlani è sempre stato un proxy della Turchia: il controllo da parte di Ankara è abbastanza chiaro, tant’è vero che il capo dell’intelligence turca e il ministro degli Esteri Hakan Fidan hanno camminato insieme nelle strade di Damasco e si sono presi un tè con il leader di HTS. Per la Turchia rimane sul tavolo la grande incognita del YPG (Unità di Protezione Popolare) e dell’SDF (Forze Democratiche Siriane), che mirano a un’autodeterminazione territoriale. Milizie che Ankara considera organizzazioni terroristiche, legate al PKK, che usano la matrice curda a proprio uso e consumo, ma che comunque non rappresentano i curdi: in molte delle interviste nei territori da loro controllati gli stessi curdi fanno capire che non digeriscono la loro presenza. La grande linea di frattura tra l’Occidente e la Turchia è il fatto che l’Occidente riconosce SDF e queste milizie come i curdi in sé e per sé.
Quindi Erdogan ha paura che SDF e YPG vogliano staccarsi dalla Siria e costituire una specie di Kurdistan siriano?
Esatto. Quello che pensa Erdogan lo pensano tutti i turchi, per i quali sarebbe indigeribile il fatto che si creasse un’autonomia all’interno della Turchia o in Siria, a ridosso del confine turco: vorrebbe dire legittimare pure l’azione interna del PKK in Turchia.
A livello interno, però, sono stati avviati colloqui con i curdi per la normalizzazione dei rapporti. Cosa sta succedendo?
Abdullah Ocalan, il leader storico del PKK, in carcere ormai dal 1990, ha dichiarato che è arrivato il momento di deporre le armi, di risolvere il problema del separatismo. C’è una negoziazione in corso. I partiti filocurdi sono rappresentati in Parlamento e la corrente cosiddetta DEM è stata ricevuta dal blocco nazionalista, dall’MHP di Devlet Bahçeli. Un vero turning point nella storia della Turchia.
Insomma, c’è una volontà abbastanza chiara di Erdogan e Bahçeli di normalizzare i rapporti con i curdi, mentre dall’altra parte i gruppi che agiscono al confine con la Siria vogliono creare una specie di enclave curda?
Da una parte Ocalan cerca la normalizzazione, dall’altra ci sono gruppi che vogliono l’autonomia, scompaginandone i piani: c’è uno scontro in atto all’interno tra i curdi, tra il PKK e questi che dovrebbero essere la loro espressione siriana, diciamo. C’è anche un problema di leadership: le nuove generazioni sanno chi è Ocalan, ma è in carcere da oltre 30 anni e fuori si sono fatte avanti nuove guide.
Ma i curdi siriani avranno un ruolo nella Siria?
Al Jawlani vorrebbe normalizzare le milizie curde inglobandole in un unico sistema di sicurezza. Come le altre milizie dovrebbero sciogliersi e finire in un esercito unico. Nel momento in cui c’è questa possibilità e in Turchia sono in corso trattative con i curdi, avere delle mine vaganti come YPG e SDF che reclamano autonomia in Siria rischia di rovinare i programmi. Tra l’altro, queste forze sono state cacciate dalle principali zone che controllavano, soprattutto dal confine con la Turchia, nonostante l’aiuto degli americani, che comunque vogliono disimpegnarsi da questa area.
Ma quando Erdogan parla di unità della Siria che non può essere intaccata, ha in mente solamente i curdi o anche altre realtà? Si è parlato anche di frammentare la Siria in una serie di piccoli Stati. Il presidente turco rifiuta anche questa divisione?
Erdogan ha in mente uno Stato unitario, quindi non tollererà altre repubbliche autonome. Anche se poi il vero problema restano i curdi. Gli importa che ci sia una situazione stabile, senza enclave da cui possano partire azioni di rappresaglia che mettano a repentaglio gli interessi della Turchia.
La Siria è talmente disastrata che non può pensare da sola al suo rilancio. Quanto incide la Turchia sul nuovo governo? Al Jawlani quando decide lo fa insieme ad Hakan Fidan?
Credo ci sia un filo diretto, me lo fa pensare anche il fatto che il ministro degli Esteri è un siriano che ha studiato e si è diplomato nell’università dove lavoravo a Istanbul. Nell’entourage di Al Jawlani tanti sono cresciuti e hanno ricevuto un’istruzione in Turchia. Le direttive certamente collimano con gli interessi turchi.
Lo si vede anche da alcune scelte che sono state già fatte?
Per la fornitura di energia elettrica pare che ci sia già un consorzio tra Turchia e Qatar, la ricostruzione delle maggiori infrastrutture sarà affidata a società turche, alcuni contratti credo siano già stati siglati. Il ruolo della Turchia è chiaro anche quando Erdogan minaccia di intervenire con la forza se non verrà rispettata l’unità della Siria: se avesse davanti uno Stato sovrano si sentirebbe rispondere che gli affari di casa i siriani se li sbrigano da soli.
Il legame diretto con Ankara, insomma, è lampante?
Al Jawlani ha guidato quello che si chiamava l’Esercito Libero Siriano e poi ha cambiato camicia, passando da un islam estremo a uno moderato, un po’ come ha fatto Erdogan quando è salito al potere nel 2002: l’attuale presidente prima militava in un partito dichiaratamente islamista.
Ma c’è spazio, almeno dal punto di vista degli affari, della ricostruzione, per qualcun altro?
In una logica di realpolitik credo ci sia spazio anche per altri. La settimana scorsa c’è stata la visita di una delegazione UE. La Turchia concederà anche a qualcun altro di lavorare alla ricostruzione, ma avendone in cambio, come al solito, qualche vantaggio. Gli USA avranno la loro parte.
L’Italia può avere un ruolo?
La Meloni è stata una delle prime che ha parlato con Erdogan della questione siriana al telefono. L’acquisizione di Piaggio Aerospace da parte della turca Baykar dimostra che c’è una grande sinergia su tanti dossier.
Intanto però gli israeliani si sono presi un pezzo di Golan. Ankara si scontrerà con Tel Aviv per questo?
La Turchia non arriverà mai allo scontro militare con Israele. Tutto dipende dal cessate il fuoco che si sta negoziando su Gaza e in Libano: immagino che le trattative si occuperanno anche dei territori siriani. È verosimile che quella zona rimanga israeliana: leggendo la stampa turca vedo che non c’è grande attenzione a questo tema.
(Paolo Rossetti)
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