I sistemi alimentari di produzione del cibo sono responsabili di circa un terzo delle emissioni di gas serra globali: è questo l’aspetto più preoccupante che emerge da un recente studio condotto dalla FAO (Food and Agriculture Organization, il programma delle Nazioni Unite che si occupa di aumentare i livelli e la qualità della nutrizione nel mondo) che conferma una volta di più, semmai ce ne fosse bisogno che il modello attuale non è più sostenibile. In attesa dell’avvento di quel paradigma di economia sostenibile applicata pure al comparto dell’alimentazione, a finire sotto la lente di ingrandimento sono le emissioni create non solo a partire dallo sfruttamento dei terreni e della stessa produzione agricola, ma anche la fase dell’imballaggio e, alla fine della filiera, la gestione di scarti e rifiuti. Secondo il rapporto, nel 2015 le emissioni prodotte sono state pari al 34% del totale per un volume di oltre 18 miliardi di tonnellate di biossido di carbonio.



La presentazione dello studio della FAO è arrivata contestualmente al lancio di una nuova banca dati ad hoc e che consente di fare una sorta di storico a ritroso fino al 1990, anche per capire quali sono i trend: la piattaforma Edgar-Food infatti consentirà, stando alla nota diramata dall’Organizzazione, di “avere una panoramica più chiara e di calcolare gli effetti sul clima della produzione, distribuzione e consumo alimentare”. Dati che saranno peraltro molto utili in vista del meeting dell’ONU in programma nell’autunno 2021 e che verterà proprio sul tema del consumo alimentare nel mondo e le emissioni di gas serra, nonché le correlazioni di questo comparto con i cambiamenti climatici che nemmeno i più irriducibili negazionisti di settore possono più sottostimare.



FAO, “SISTEMI ALIMENTARI PRODUCONO 34% DELLE EMISSIONI DI GAS SERRA”

Insomma, il nuovo database servirà come punto di partenza per raccogliere nuove evidenze e a supporto degli studi che verranno, al fine di rimarcare quanto sia disastroso l’impatto che i sistemi alimentari hanno sul clima soprattutto nei Paesi in via di sviluppo dove lo sfruttamento intensivo dei terreni e la continua deforestazione di aree verdi è diventata una vera e propria piaga. La percentuale di emissioni prodotte dai paesi industrializzati sarebbe attorno al 24% mentre nei Paesi in via di sviluppo si attesta attorno al 39% (rispetto a una incidenza del 68% a inizio Anni Novanta). Insomma, dati in leggerissimo miglioramento ma va pure ricordato il peso che hanno poche nazioni, non molto virtuose in tal senso, sul dato globale ovvero USA, Brasile, India, Indonesia, Cina e Unione Europea nel suo complesso. Tra le principali cause della produzione di gas fluorurati ad effetto serra lo studio FAO annovera l’utilizzo eccessivo dei suoli e l’impiego di fertilizzanti in agricoltura, ma pure la forte incidenza a livello energetico delle successive fasi quali lavorazione, imballaggio e trasporto.



Infatti, a contribuire al fenomeno dei cambiamenti climatici e al cosiddetto “global warming” sono anche quei ‘passaggi’ della filiera troppo spesso sottovalutati in passato: un esempio è la catena del freddo a cui è imputabile oltre il 50% dei consumi energetici (responsabili del 5% mondiale delle emissioni di gas), dato peraltro destinato purtroppo a crescere nei prossimi anni. Non meno dannosa è la fase dell’imballaggio dei prodotti (5,4% totale) e del trasporto, senza dimenticare la perniciosa gestione dei rifiuti che impattano negativamente anche in modo diretto sull’ambiente. Insomma, anche se nell’ultimo periodo alcuni segnali di una piccola inversione di tendenza ci sono stati, il sistema alimentare va ripensato alle fondamenta dato che, un po’ in controtendenza, continua a pesare sempre di più sul dato globale delle emissioni, come confermato da uno studio condotto da Francesco Tubiello, esperto in cambiamenti climatici presso l’ONU in collaborazione col Centro comune di ricerca della Commissione UE di Ispra (Varese).