“Niente batte la realtà”. Poche, pochissime parole che fanno a pezzi tutta la mitologia su cui si è costruita l’etica della musica rock, ma non solo. Che tu sia un agente di borsa a Wall Street o un super manager della Tesla di Elon Musk o il cantante di un gruppo rock, c’è un motto adottato un po’ da tutti che si rivela ingannatorio, una beffa, una utopia spiazzante: segui i tuoi sogni. Non è vero. E quando un sogno non si realizza, diceva Bruce Springsteen, è una maledizione. E la vita crolla, e tu crolli.
Non è stato così per Sixto Rodriguez. Il crollo del suo sogno, quello di essere un cantante, non l’ha mai preso come una maledizione: “Mi sarebbe piaciuto continuare a fare dischi, ma niente batte la realtà. Sono tornato al mio lavoro, il muratore, demolizioni e ristrutturazioni di edifici. Mi sono divertito. Mantiene sana la circolazione del sangue e ti tiene in forma”. Umiltà, semplicità, ma soprattutto realismo, appunto: la realtà si impone e se fuggi da essa, per quanto possa sembrarti incomprensibile e crudele per le logiche del mondo, ti fai solo del male. Una lezione per i giovani di oggi, cresciuti come pane quotidiano con le stelline della televisione, gli influencer, la menzogna quotidiana che la vita debba essere quella cosa lì: il successo. Ma anche per tanti rocker che davanti al fallimento del loro sogno hanno trovato come rimedio solo una siringa e una overdose.
La storia di Rodriguez è la storia più incredibile che la musica rock ci abbia narrato, l’altra faccia del sogno, simile per tanti versi a quella di altri musicisti rock, gli one hit wonder, quelli che hanno toccato il cielo con una sola canzone di successo e poi sono svaniti per sempre. Il rock’n’roll è un mondo di imbroglioni, di ladri di sogni, di avvocati, manager e discografici pronti a succhiarti l’anima pur di guadagnarci dei soldi. Ma la storia del cantante di Detroit ha aspetti unici, anche perché lui, almeno in modo consapevole, il successo non l’ha mai avuto. Semplicemente, gli è stato rubato.
Fortemente influenzato da Bob Dylan, di cui adotta il linguaggio poetico serrato fatto di feroci accuse alla società, capace di descrivere con empatia la vita miserabile dei quartieri periferici delle grandi metropoli americane, l’uso della droga come unica via di fuga da quella desolazione, comincia a esibirsi nei club della sua città, Detroit, alla fine degli anni 60: “Born in the troubled city in Rock and Roll, USA”, nato in una città piena di guai, negli Stati Uniti del rock’n’roll. Dotato di una voce meravigliosa, dalle forti cadenze soul, ma di una capacità di scrittura legata all’ambiente folk e rock, Rodriguez viene notato da qualcuno che pensa di farne “the next big thing”. Due dischi soltanto, Cold fact del 1970 e Coming from reality dell’anno dopo, poi più niente. Sembra che abbia venduto in tutto sei copie dei suoi album in America.
Un peccato, perché si tratta di canzoni meravigliose in cui la voce delicata e allo stesso tempo piena di sentimento e di rabbia di Rodriguez illumina l’ascoltatore, lo eleva in uno stato di beatitudine e liberazione spirituale: “Sei mai stato nell’oscurità dove la tua mente non trova pace, quando ti svegli dopo mezzanotte, allora sali sulla mia musica e le mie canzoni ti renderanno libero” canta in Climb up on my music. E succede davvero così, le sue canzoni ti trasportano in un oltre, in un vortice di sensazioni illuminanti, visionarietà che mette pace nei tumulti che ti devastano. E non sarà lo Sugar man della canzone omonima, carico di anfetamine, coca, marijuana a tirarti fuori: “Tu ci porti navi magiche d’argento, pillole, coca, la dolce Mary Jane, Sugar Man, sei tu la risposta, fai sparire le mie domande, Sugar Man sono stanco dei tanti doppi giochi”.
Rodriguez possiede la stessa genialità di Bob Dylan nel coniare versi che mischiano rime apparentemente assurde, visioni glaciali del mondo là fuori, una capacità di mettersi a nudo, ma anche di auto ironia: “Ho suonato in ogni tipo di posto dove c’è da suonare, ho suonato nei bar per i gay, in quelli per prostitute, ai funerali di motociclisti, nei teatri d’opera, nelle sale da concerto, nei centri di accoglienza, in tutti questi posti le persone per cui ho suonato sono le stesse quindi, se ascolterai, forse vedrai qualcuno che conosci in questa canzone: una canzone disgustosa”.
Rodriguez firma per l’allora famoso boss della Sussex Records, Clarence Avant, che in precedenza aveva lavorato con la star del soul Bill Withers ed era conosciuto come il Padrino Nero. Un personaggio malavitoso, come tanti del mondo della musica. Rodriguez, poi, è terribilmente timido e una sera volta le spalle al pubblico mentre suona sul palco in un concerto importante a Los Angeles. Svanì nell’oscurità e tornò a lavorare nel settore edile nella sua città natale di Detroit.
Eppure accade qualcosa di inverosimile. In qualche modo i suoi dischi arrivano nell’unico paese al mondo dove un musicista di origine messicana, dalla pelle scura, non dovrebbe neanche apparire nelle vetrine di un negozio, il Sud Africa. Alcune sue canzoni vengono bandite dal governo dell’apartheid, ma diventano la colonna sonora della rivoluzione che porterà alla caduta del regime bianco nel 1994: “Negli anni ’80, ogni adolescente bianco liberale in Sud Africa aveva una copia di Cold Fact“, afferma la fan sudafricana Karin Wright, 50 anni. “A ogni festa le sue canzoni esplodevano. Non avevamo idea che Rodriguez non fosse una grande star in tutto il resto del mondo”. Ma soprattutto che lui non ne sapesse niente. In Sud Africa i suoi dischi vendono oltre 500mila copie, più di quanto vendano i dischi di Elvis Presley. Lo stesso succede in Australia e Nuova Zelanda. Ma a Rodriguez non arriva un centesimo. E’ stato bellamente truffato.
Rimane un enigma, un mistero in agguato dietro gli occhiali da sole. Ci vorrà un fan sudafricano, Stephen Segerman, deciso una volta per tutte a scoprire chi sia questo uomo, se sia ancora vivo o morto come dicono alcuni. Lo cerca e lo trova in un modesto appartamento alla periferia di Detroit mentre si sta recando a lavorare in un cantiere. Gli dice che in Sud Africa è una star.
Nel 1998, Rodriguez vola laggiù per una serie di concerti esauriti davanti a fan rapiti. Ha continuato a girare il mondo, inclusa Londra, guadagnando finalmente parecchio. Poi il regista svedese Malik Bendjelloul venuto a conoscenza della storia contatta Segerman per chiedergli se poteva aiutarlo a girare un documentario. lL film che ne ricava sconvolge il mondo e rilancia di schianto il musicista americano. Alla ricerca di Sugar Man vince il premio come miglior documentario agli Academy Awards del 2013, oltre a un BAFTA. Rodriguez, ancora lo stesso ragazzo timido di una volta, si rifiuta di partecipare alla cerimonia a Los Angeles, sostenendo di essere impegnato a suonare.
Adesso, dopo una causa durata anni, a un mese dal suo 80esimo compleanno, ha ottenuto il riconoscimento dei diritti su tutti i dischi venduti negli anni. Anche i perdenti a volte diventano fortunati, si intitolava una canzone di Tom Petty. “Rodriguez è felice che le persone abbiano scoperto la sua musica e che abbia avuto modo di girare il mondo” dice l’uomo che lo ha riscoperto.
Lo abbiamo visto sul palcoscenico, il fisico ormai spezzato da decenni in cui si è spaccato le ossa sui ponteggi per portare a casa uno stipendio, quasi cieco, sorretto dalla figlia, accompagnato da una band raccolta all’ultimo minuto incapace di seguire il suo spirito che vaga altrove, invitandoci a saltare sulla sua musica. Ma non come una star che reclama il successo che non ha avuto, piuttosto come un uomo umile che porge delicatamente le sue canzoni, a un pubblico inebriato che vuole invece vedere “la leggenda”, rendersi conto se esiste veramente nel mondo reale un uomo che si chiamava Sugar Man.
Quella sera che lo vedemmo sul palcoscenico del prestigioso Teatro Arcimboldi di Milano, fra le tante cantò anche una canzone resa nota da Frank Sinatra, Gonna live till I die: “Vivrò fino a quando morirò, riderò invece di piangere, prenderò la città e la ribalterò, sarò un diavolo, fino a quando diventerò un angelo ma fino ad allora: alleluja!”. Grazie Sixto Rodriguez, per averci insegnato l’umiltà, la semplicità del cuore e la bellezza delle piccole cose.