Gli autori de L’illusione della conoscenza Steven Sloman e Philip Fernbach prendono spunto da un fatto realmente accaduto nel 1954. Americani e francesi, durante la stagione degli esperimenti nucleari successiva alla fine della seconda guerra mondiale, scelsero come teatro delle esplosioni sperduti atolli dell’Oceano Pacifico, con la presunzione di tenere sotto controllo le conseguenze legate in particolare agli effetti radioattivi. Quell’episodio rivelò al mondo l’assoluta impreparazione della comunità scientifica a governare le proprie stesse scoperte. Vi furono morti innocenti, la deportazione delle popolazioni dalle isole, danni irreversibili all’ambiente. Era davvero incredibile – rilevano gli autori – come in pochi anni il progresso tecnologico era giunto a produrre armi della potenza superiore milioni di volte a quelle usate fino agli ultimi giorni nei teatri di guerra. Ma era sicuramente ancora più sconvolgente scoprire che queste micidiali macchine di morte venivano effettivamente usate, un po’ per minacciare i nuovi nemici, ancora non del tutto sottomessi al potere “nucleare”, un po’ perché stolti, cioè oggettivamente incapaci di capire l’orrore che essi stessi provocavano distruggendo altri esseri viventi, umani e no.



Da quegli esperimenti prese avvio nella seconda metà del novecento un’altra storia che ricordiamo oggi come gli anni della “guerra fredda”. La rincorsa al “nucleare” di coloro che si sentirono minacciati (a cominciare dai sovietici, ma non solo) provocò una competizione scientifica senza pari nella storia dell’umanità, prosciugando immense ricchezze. Da questo punto di vista la storia mondiale ha subito proprio in quel momento una grande accelerazione. È in quegli anni che si gettano le basi dello straordinario sviluppo tecnologico della civiltà umana che conosciamo oggi.



Non è vero che nessuno si accorse dei colossali problemi etici e morali che tale sviluppo poneva alla comunità umana. Primo fra tutti fu Papa Giovanni XXIII a indicare come fosse assurdo continuare a produrre armi con il solo scopo di vedere distrutta l’umanità. Nacquero ovunque movimenti pacifisti, si lavorò per un disarmo degli arsenali (obbiettivo mai raggiunto completamente ancora oggi), e in più di un occasione si sfiorò la tragedia.

Ma gli autori ci conducono a riflettere anche su altro. In particolare su quanto noi sappiamo del benessere che ci circonda, della tecnologia che si nasconde dietro ogni oggetto della nostra vita quotidiana, e del perché riversiamo una fiducia totale sulla conoscenza collettiva. È attraverso di essa che l’umanità ha scelto di conquistare livelli sempre più alti di benessere, di comodità e di felicità.



Fino ad un certo punto. Perché da un po’ di tempo a questa parte sembra essersi rotto quel patto non scritto tra chi è depositario della conoscenza e chi ne è felice usufruttuario. Mai prima d’ora chi usava un frullatore pretendeva di contestare il produttore o sostituirsi a esso.

Oggi avviene sistematicamente. Prima di andare dal medico di base abbiamo già pronta la nostra diagnosi frutto di una nottata trascorsa ad interrogare Google, prima di ascoltare un virologo abbiamo già pronta la nostra idea sull’utilità dei vaccini, prima di sapere da un ingegnere come si costruisce una galleria abbiamo già pronta la nostra analisi costi-benefici.

Ogni aspetto di quella che possiamo chiamare intermediazione culturale oggi viene platealmente messa in discussione. Se scrivo qualcosa la pubblico (sui social) e non ho bisogno di un editore che mi dica che va bene; se sono convinto che la terra è piatta, non ho difficoltà a trovare altri che la pensano come me e posso organizzare un convegno; posso tranquillamente sospettare di ogni cosa che a mio avviso non è sufficientemente provata, senza stare lì a perdere troppo tempo a studiare e a capire.

Come siamo potuti giungere fino a questo punto? La cosa agita ovviamente la comunità di coloro che a ragione si considerano i detentori della “conoscenza”.

C’è chi incolpa internet, c’è chi pensa che occorre togliere ogni potere di controllo democratico sulle competenze, c’è chi invoca la ricostituzione di vere e proprie caste, a cui affidare – con potere assoluto – il compito di conservazione della scienza e la responsabilità di consentirne l’uso più appropriato.

La scorciatoia auspicata – chiamiamola così – sarebbe dunque quella di sottrarre al “popolo” il diritto di esprimersi in merito alla conoscenza, o meglio, limitare il più possibile il diritto ad interferire, lasciando questo potere ad una ristretta cerchia di eletti. 

A tale conclusione – diciamo la verità – sono arrivati prima di noi quasi tutti i popoli che ci hanno preceduto e in ogni epoca dello sviluppo dell’umanità. Dagli stregoni alla Santa Inquisizione.

Questa non appare una soluzione praticabile al giorno d’oggi. Anche perché va detto che come hanno dimostrato i disastri procurati dagli esperimenti nucleari negli anni 50 o l’inettitudine umana a Chernobyl – come ci sta raccontando una bella serie tv – e mille altri episodi di questo tipo, è proprio dall’assenza di fiducia e dalla possibilità di esercitare il diritto del dubbio che l’umanità ha sempre tratto grandi benefici. Cosa saremmo senza Galileo o Tesla?

Proprio il rifiuto di considerare infallibile e immodificabile quello che la scienza ci ha spiegato fino a quel momento dovrebbe spingerci a cercare sempre maggiori risposte e a non considerare un risultato ottenuto una volta per sempre. E se nel frattempo qualcuno si convince che la terra è piatta ce ne faremo una ragione, lo inviteremo semplicemente a dimostrarcelo, e declineremo cortesemente ogni invito a fare un viaggio con lui. 

A meno che ovviamente non siamo noi a guidare.

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