Per lanciare davvero e finalmente lo smart working nel lavoro pubblico una circolare non può certo bastare. Indubbiamente la titolare di palazzo Vidoni, Fabiana Dadone, con la circolare 1/2020 ci ha messo tutta la sua buona volontà e ha agito coerentemente con i provvedimenti di emergenza del Governo. Non si può dimenticare, però, che il tema è trattato già, dal 2015, dalla legge-delega delle riforme Madia, la legge 124/2015, che all’articolo 14 ha introdotto per le pubbliche amministrazioni l’obbligo (non la facoltà, non il mero consiglio) di prevedere nei piani organizzativi, da valutare ai fini dei premi per il merito, i modi per consentire almeno (quindi anche a più) al 10% dei dipendenti pubblici di lavorare, su loro domanda, col lavoro agile, entro il 2018.

Se a due anni dalla scadenza prevista per l’avvio del lavoro agile occorre ancora una circolare che “incentivi” le PA a partire con lo strumento, è chiara, allora, la sostanziale e diffusissima violazione delle previsioni normative vigenti dal 2015. Del resto, da ancor più tempo, dalla tornata dei contratti collettivi della stagione 1999-2002, si sono quasi perse, nel lavoro pubblico, le tracce anche di un antesignano dello smart working, cioè il telelavoro.

L’emergenza del coronavirus non fa altro che svelare ritardi e difficoltà. Per rimediare ai quali, ovviamente, non basta certo una circolare che, poi, alla fine, altro non è se una sintesi della direttiva 3/2017 dell’allora ministro della funzione Pubblica Madia, attuativa della legge 124/2015 e anch’essa, ovviamente, caduta sostanzialmente nel vuoto.

I problemi restano sempre almeno due. Il primo consiste nell’emanazione di leggi contenenti obblighi, che poi nessuno verifica se siano adempiuti. È il solito precetto privo di sanzione, che si traduce, quindi, in vuoto enunciato. Nessuno ha controllato se davvero progetti organizzativi per l’avvio dello smart working siano mai stati attuati, né quale percentuale di personale riguardassero, né se le valutazioni delle performance organizzative abbiano tenuto conto di questi obblighi. Quindi, le PA, di per sé poco propense all’innovazione, hanno lasciato i progetti nel cassetto.

V’è anche da dire che l’innovazione nella gestione pubblica è resa estremamente difficile dallo stesso Stato e dalle sue leggi. Sono esattamente degli stessi anni norme, oggettivamente assurde, poste a limitare gli acquisti di materiale e software informatici, peraltro obbligatoriamente incanalati nelle convenzioni Consip. Le quali sono state così largamente insufficienti a rifornire la PA del materiale necessario, che col d.l. 9/2020 si prevede un’enorme estensione degli acquisti di pc portatili, permettendo così alle PA di acquisirli a loro volta per destinarli allo smart working.

Come si nota, se la PA ha difficoltà operative e funzionali, non è tutto e mai solo colpa dei “burocrati”, ma anche di una legislazione strabica, caratterizzata da regole del tutto scoordinate tra loro, tali da dire e disdire contestualmente.

Il secondo problema, connesso al primo, è l’assenza di finanziamenti. Il lavoro agile è caratterizzato da un sistema di resa del lavoro svolta “dematerializzando” la sede e gli strumenti “analogici”, come scrivania, sedia, carta, penna, in favore di un lavoro, appunto, intelligente ma immateriale, reso sfruttando il cloud, con applicativi quindi raggiungibili ovunque, stampanti utilizzabili grazie al cloud reperibili in qualsiasi posto autenticato, applicativi non installati in un hard disk, ma disponibili in reti Vcn, pc, tablet e smartphone potenti, dotati di connessione costante alla rete e di piattaforme di lavoro protette da sistemi di sicurezza per i dati.

L’articolo 14 della legge 124/2015, invece, contiene la disposizione che impedisce in radice l’efficacia di qualsiasi riforma: “nei limiti delle risorse di bilancio disponibili a legislazione vigente e senza nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica“. Non è un caso, allora, se la Consip abbia, in questi anni, messo a disposizione un numero certificato come esiguo di laptop da utilizzare. Nè è un caso che la circolare chieda sostanzialmente ai dipendenti pubblici di ovviare alle carenze hardware, laddove, come incentivo all’attivazione del lavoro agile, indica il criterio del “ricorso alle modalità flessibili di svolgimento della prestazione lavorativa anche nei casi in cui il dipendente si renda disponibile ad utilizzare propri dispositivi, a fronte dell’indisponibilità o insufficienza di dotazione informatica da parte dell’amministrazione, garantendo adeguati livelli di sicurezza e protezione della rete secondo le esigenze e le modalità definite dalle singole pubbliche amministrazioni“.

Ammesso e non concesso che i dipendenti abbiano voglia di mettere a disposizione propri apparati hardware, il problema vero consiste nella sicurezza delle reti. Una rete domestica può davvero sostituirsi, per performance e requisiti, a quella aziendale?

L’emergenza e la conseguente fretta forse giustificano tutto, anche modalità operative molto connesse alla buona volontà. L’impreparazione all’evenienza resta evidente. Anche perché continua a mancare il terzo pilastro, indispensabile, del lavoro agile: la determinazione delle attività e dei prodotti da realizzare.

La dematerializzazione della sede di lavoro scardina l’elemento classico del lavoro subordinato: la messa a disposizione da parte del lavoratore del proprio tempo in favore del datore di lavoro. Col lavoro agile non conta più dove e in che orario la prestazione sia svolta, ma che essa sia appunto svolta.

Dunque, non tutte le attività si prestano al lavoro agile. Ma anche quelle che siano idonee a questo tipo di organizzazione (attività di contabilità, controllo tributi, protocollazione e archiviazione di documenti digitali, ispezioni, accessi a cantieri o a domicili di persone assistite) debbono presupporre la conoscenza dettagliata delle attività, dei tempi medi della loro resa, con indicatori chiari delle quantità e qualità da attendersi, per tradurre il tutto in un progetto che renda credibile la prestazione lavorativa dematerializzata come attività che non riduca, ma garantisca la produttività.

Tuttavia, la garanzia della produttività richiede di conoscere cosa si fa, come lo si fa, in che tempi: ciò che esattamente la gran parte delle pubbliche amministrazioni non sa.