Il ricorso allo smart working sta crescendo in Italia, dato che quest’anno sono state oltre 8 milioni la posizioni attivate da marzo a giugno 2020. Si potrebbe pensare a un fenomeno irreversibile in grado in poco tempo di portare il nostro Paese ad allinearsi a una tendenza già avviata da tempo altrove in Europa e nel mondo. «In effetti nella primavera-estate 2020 vi è stato un massiccio ricorso al lavoro agile, che in Italia fino all’anno scorso era praticato solo da poche aziende e mediamente per solo uno/due giorni al mese in forza di una legge estremamente “agile ed essenziale”, ovvero la legge n. 81 del 2017», ricorda l’avvocato del lavoro Cesare Pozzoli.
I numeri sembrano tra l’altro destinati a crescere in questi mesi.
Oggi si può dire che sia per l’alto gradimento riscosso tra i lavoratori e da parte di molte aziende, sia per la situazione sanitaria che tutt’ora sconsiglia assembramenti e attività lavorative in presenza, questo fenomeno è chiaramente destinato a consolidarsi e strutturarsi divenendo, almeno in forma alternata con il lavoro “tradizionale” “in presenza”, un fenomeno irreversibile.
Da cosa si può dedurre l’irreversibilità di questo trend?
Vari studi e sondaggi condotti in questi mesi attestano la tendenza a consolidare, almeno in parte, il lavoro agile; e molte aziende stanno ormai ridimensionando strutturalmente i propri uffici e luoghi di lavoro progettando modalità alternate di lavoro in ufficio e in modalità agile, non solo presso l’abitazione dei dipendenti.
Si riferisce al fenomeno del co-working?
Esattamente. Sono stati attivati ai margini di molte aree metropolitane spazi di co-working che consentono ai dipendenti di lavorare in forma agile senza venire in ufficio, spesso collocato nel centro delle grandi città e disagevole da raggiungere con le auto e i mezzi pubblici. Ciò consente di prestare l’attività lavorativa presso luoghi “decentrati”, condivisi con altri lavoratori e più vicini alle proprie abitazioni, nel rispetto delle norme di sicurezza e con attrezzature tecnologiche adeguate, evitando il rischio di “alienazione solipsistica” riscontrato laddove il lavoro da casa sia eccessivamente prolungato.
Cosa prevede la normativa sullo smart working?
La legge 81/2017 si limita a prevedere, in sintesi, che il lavoro agile possa essere pattuito tra lavoratore e datore di lavoro in forma libera e che sia revocabile con un adeguato preavviso. Nei fatti i vari decreti legge che si sono succeduti da marzo a oggi (in particolare il Dpcm 1.3.2020 e il Decreto Rilancio n. 34 del 19.5.2020) hanno previsto, in deroga a tale normativa, che fino al termine del periodo pandemico – a oggi fissato al 31 gennaio 2021 – lo smart working possa essere disposto su iniziativa unilaterale del datore di lavoro. Da ultimo, il recente Dpcm del 3 novembre, all’art. 5, ha “fortemente raccomandato l’utilizzo della modalità di lavoro agile da parte dei datori di lavoro privati”.
Ma se è una “forte raccomandazione” non è un obbligo per le imprese…
Aldilà della locuzione elastica e piuttosto inusuale coniata dal Decreto, ritengo che la “forte raccomandazione” per il lavoro agile, ovviamente compatibilmente con le esigenze aziendali, corrisponda nei fatti quasi a un obbligo.
Perché?
Anzitutto in caso di contestazioni del lavoratore, delle organizzazioni sindacali o degli organi pubblici ispettivi, si può ritenere che la “forte raccomandazione” per il lavoro agile inverta quantomeno l’onere della prova, ovvero imponga al datore di lavoro di dimostrare di aver fatto tutto quanto ragionevolmente possibile per collocare i lavoratori in modalità agile senza riuscirvi. Segnalo peraltro che vi sono vari provvedimenti giudiziali, per esempio dei Tribunali di Bologna e Grosseto che, ancor prima della “forte raccomandazione” del Dpcm, hanno statuito il diritto del lavoratore a prestare l’attività lavorativa in modalità agile in particolari situazioni di salute o familiari. Ma oltre a questo motivo vi è anche un profilo fondamentale di sicurezza e responsabilità delle imprese, con possibili conseguenze patrimoniali e addirittura penali.
A cosa si riferisce?
Nel caso in cui le aziende non attuassero la “forte raccomandazione” allo smart working ove ragionevolmente possibile, e uno o più lavoratori si infettasse (ricordo che ormai i contagiati non sono più soltanto, come nella prima “ondata”, soggetti anziani, ma anche e prevalentemente persone in età di lavoro), le imprese avrebbero la grave responsabilità del contagio ed eventualmente di possibili focolai endoaziendali. In tal caso potrebbero porsi gravi responsabilità sul piano civile, patrimoniale e penale giacché, ai sensi dell’art. 2087 c.c., “l’imprenditore è tenuto ad adottare nell’esercizio dell’impresa le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica… dei prestatori di lavoro”. Al riguardo la giurisprudenza è sempre stata molto rigorosa nell’esigere la “massima cautela possibile” da parte del datore di lavoro per il rispetto delle norme di sicurezza, persino quelle c.d. “innominate”; mentre nella specie lo smart working è fortemente raccomandato sia dal Dpcm del 3.11.2020, sia dal Protocollo condiviso per il contrasto e il contenimento della diffusione del virus Covid-19 negli ambienti di lavoro fra il Governo e le parti sociali del 24 aprile 2020.
Le conseguenze quali sarebbero per le imprese?
Il datore di lavoro potrebbe essere facilmente ritenuto responsabile degli infortuni sul lavoro occorsi ai propri dipendenti e, ove le lesioni fossero gravi, scatterebbe altresì la responsabilità penale che farebbe venire meno anche la garanzia assicurativa approntata dall’Inail.
Qual è quindi la portata precettiva della “forte raccomandazione” posta dal Dpcm?
La risposta non è semplice, anche perché la norma è recente e non vi sono ancora sentenze in proposito. Si può tuttavia ritenere, in analogia con gli orientamenti giurisprudenziali espressi con riferimento al collocamento obbligatorio dei lavoratori disabili ex legge n. 68/99, che il datore di lavoro è tenuto a strutturare almeno in parte la propria organizzazione in modo tale da consentire, ove ragionevolmente possibile con oneri contenuti, il lavoro agile.
Cosa comporta la “raccomandazione” dal punto di vista delle attrezzature necessarie per lavorare da casa o da remoto?
Anche questo è un tema delicatissimo ed estremamente “caldo”. Attualmente l’unica norma espressa in materia è l’art. 18 della L. n. 81/2017 che stabilisce la responsabilità del datore di lavoro “del buon funzionamento degli strumenti tecnologici assegnati al lavoratore per lo svolgimento dell’attività lavorativa”, senza prevedere un esplicito obbligo aziendale di apprestare a favore del lavoratore gli strumenti stessi. Ora si può ragionevolmente ritenere che la “forte raccomandazione” del Decreto, unita alle norme generali in materia di sicurezza sul lavoro, imponga al datore di lavoro un quid pluris, ovvero di mettere a disposizione dei dipendenti quantomeno le dotazioni di base necessarie per poter lavorare da remoto, che usualmente si sostanziano in un computer o tablet, stampante/scanner e chiavetta usb per la connessione.
Ci sono stati casi in cui le aziende hanno dotato i dipendenti degli strumenti di lavoro?
Si, alcune note aziende hanno previsto un “kit smart working” di 1.000 euro per ciascun lavoratore per dotarsi delle attrezzature di base necessarie per lavorare in modalità agile; e le organizzazioni sindacali stanno spingendo in questa direzione. D’altra parte, oltre all’aspetto sanitario e precauzionale evidentemente preminente, il lavoro agile può dare continuità a molte imprese che possono così proseguire l’attività produttiva com’è stato dallo scoppio dell’epidemia fino a oggi e come accadrà verosimilmente anche nei mesi a venire. Recenti studi economici condotti da enti specializzati hanno tra l’altro dimostrato che, in termini di risparmio di spazi, costi di pulizia, gestione e manutenzione, il lavoro agile comporta un risparmio per le aziende. Segnalo che in taluni Paesi si è addirittura ipotizzata una tassazione aggiuntiva del lavoro agile per compensare i sussidi ai bar e agli esercizi delle are metropolitane “danneggiati” da questa forma di lavoro e dalla “delocalizzazione” dei centri metropolitani che essa comporta, sia pure in parte. Si tratta di una proposta paradossale, che mi permetto di non condividere, ma che fornisce la misura del fenomeno e del suo impatto anche economico ed urbanistico…
E i ticket restaurants sono dovuti nel corso dello smart working?
Anche questo tema è stato parecchio dibattuto in questi mesi in mancanza di una normativa legale chiara. In linea generale la giurisprudenza più recente ha ritenuto in più occasioni che i fringe benefits, come i ticket restaurants e le auto aziendali assegnate ai dipendenti anche per uso personale, non fanno parte della retribuzione intangibile e possono quindi essere revocati su iniziativa unilaterale datoriale, salvo che la loro attribuzione non risulti dovuta nell’atto di assunzione o costituisca un preciso impegno del datore di lavoro. Tuttavia la materia è controversa. Ove però il datore di lavoro sia obbligato ad erogare i ticket restaurants o a fornire l’autovettura aziendale anche per uso personale, trovo difficile sostenere che detti benefits possano essere revocati sol perché, in tutto o in parte, il lavoratore sia collocato in smart working.
Per quale motivo?
Per almeno due ragioni: la prima, di carattere più operativo, è che diventa difficile, quantomeno per l’autovettura aziendale, ipotizzare un uso intermittente laddove vi sia un’alternanza – spesso a “geometria variabile” – tra il lavoro prestato in azienda e quello prestato da remoto; ma poi, sul piano più prettamente giuridico e della ratio legis, perché lo smart working rimane comunque un’attività di lavoro che può essere prestata a casa ovvero in altro luogo e, in tal caso, l’esigenza del lavoratore di consumare il pasto o di utilizzare l’auto aziendale rimane inalterata esattamente come accade per il lavoro prestato “in presenza” secondo le modalità “tradizionali”. Del resto è difficilmente contestabile che un lavoratore che abiti vicino al proprio luogo di lavoro e che torni a casa a piedi nella pausa per pranzare non possa aver diritto all’auto aziendale o ai ticket restaurants eventualmente concessi alla generalità dei suoi colleghi. Si tratta comunque di temi aperti che dovranno essere opportunamente disciplinati dalla legge o dai contratti collettivi.
Ecco torniamo alla normativa, quale è lo stato dell’arte?
È stato attivato presso il ministero del Lavoro un tavolo di studio sul lavoro agile e le parti sociali stanno trattando le modalità di regolamentazione di tale fenomeno che ormai riguarda milioni di lavoratori (di cui si auspicava la diffusione anche su questa Testata già nel 2016) e che si prospetta irreversibile, anche solo in parte. Il mio auspicio è che, pur essendo necessario disciplinare taluni aspetti, la normativa sul lavoro agile rimanga smart, che si fissino cioè alcuni principi fondamentali e sia permessa poi alle parti la regolamentazione delle modalità più consone di attivazione di questa forma di lavoro, ovviamente nel rispetto della privacy e del diritto alla disconnessione. Una delle ragioni per le quali questo strumento ha funzionato è stata anche e proprio la flessibilità e l’essenzialità dello strumento legislativo. Poi da qui occorrerà ripensare a tante categorie lavoristiche “storiche” e un po’ datate…
Ovvero?
Gli aspetti sono molteplici. Penso alla nozione di “tempo di lavoro”, messa definitivamente in crisi dallo smart working, o allo stesso concetto di malattia, che si pone diversamente nell’ambito del lavoro agile rispetto al lavoro tradizionale “in presenza”. Ricordo al riguardo che il recente Messaggio dell’Inps n. 3653 del 9.10.2020 ha previsto che il lavoratore in quarantena o in sorveglianza precauzionale perché soggetto “fragile” non debba essere posto in malattia ma possa continuare a lavorare in smart working sulla base di accordi assunti con il proprio datore di lavoro. E si potrebbe continuare: è un cambiamento storico di cui potremo parlare in una prossima occasione.