Il blocco delle attività produttive e dell’erogazione di molti servizi nelle aree più esposte alla diffusione del coronavirus ha spinto molte aziende e la stessa Pubblica amministrazione a favorire le prestazioni dei loro dipendenti presso la loro abitazione con l’ausilio di strumenti informatici. Per questa ragione lo smart working, ovvero il lavoro agile, come veicolo per innovare le imprese e le organizzazioni del lavoro sta riscuotendo un’inedita attenzione dei mass media e dell’opinione pubblica, soprattutto per la componente del telelavoro.

In realtà, le prestazioni erogate dalla propria abitazione con l’ausilio di un computer rappresentano un aspetto assai delimitato del potenziale di innovazioni che viene reso disponibile da cambiamenti tecnologici, dalla possibilità di condividere a distanza, e in tempo reale, un numero elevatissimo di informazioni, analisi, progettazioni, soluzioni, di poter monitorare il funzionamento dei processi produttivi, di dialogare con fornitori, clienti e utenti. In poche parole stiamo parlando di una rivoluzione che sta investendo tutti gli ambiti della produzione e dei servizi, i fabbisogni professionali e le competenze, le caratteristiche dei rapporti di lavoro e le consuetudini delle persone.

Come possiamo constatare, già in moltissimi ambiti è praticamente impossibile operare senza l’ausilio di strumenti informatici che consentano di interagire con altri ambiti organizzativi, con colleghi, clienti, utenti e fornitori. La logistica e il commercio on line funzionano sulla base dell’integrazione di sistemi virtuali, dove persino la componente dell’intelligenza artificiale gioca un ruolo fondamentale. L’avvento della infrastruttura digitale 5G, destinata a moltiplicare a dismisura, e in ogni ambito, queste innovazioni e persino di svilupparle in ambienti di lavoro virtuali condivisi, produrrà una fortissima accelerazione di questi processi.

Quali saranno le implicazioni professionali e sulle caratteristiche dei rapporti di lavoro? Ai lavoratori verrà richiesta la capacità di operare con più autonomia, responsabilità e attitudine a cooperare con i collaboratori. Lavorare senza precisi vincoli di orario e di luogo di lavoro sposterà il peso della valutazione sulla quantità e la qualità delle prestazioni. Tenderanno a sfumare le tradizionali differenze tra lavoro dipendente, parasubordinato e autonomo. Le esperienze sul campo evidenziano che queste innovazioni generano un forte incremento della produttività del lavoro.

Lo smart working è destinato ad aumentare il grado di soddisfazione delle persone verso il lavoro svolto, a favorire una migliore conciliazione con i carichi familiari. Sul piano sociale a diminuire i livelli di mobilità urbana, e di utilizzo degli spazi aziendali, con un miglioramento dei costi di produzione e degli impatti ambientali. Queste innovazioni comportano anche dei problemi non indifferenti legati a un fabbisogno costante di adeguamento delle competenze delle persone, all’esigenza di dover riorganizzare gli spazi e i tempi delle prestazioni lavorative, alla percezione di isolamento dalle relazioni fisiche, di tutela della privacy.

Come si sta rapportando il nostro Paese verso questo potenziale di innovazioni? Tutti i raffronti internazionali sono impietosi. Il numero di lavoratori formalmente coinvolti in programmi di smart working oscilla tra le 400 mila unità (fonte Eurostat) e le 570mila stimate in una recente ricerca dell’Osservatorio sullo smart working del Politecnico di Milano. Un grado di coinvolgimento largamente al di sotto degli altri Paesi europei, poco oltre il 3% degli occupati rispetto all’11% della media Ue, ed essenzialmente concentrato nelle grandi imprese manifatturiere e dei servizi. Pesano i ritardi nella Pubblica amministrazione, e nelle piccole imprese. Tra queste ultime solo il 12% ritiene interessante avviare programmi di smart working, mentre oltre la metà non ritiene necessario farlo.

L’assenza di una grande infrastruttura a banda larga e di grandi progetti pilota della Pubblica amministrazione (in ambito fiscale, sanitario, scolastico, anagrafico) priva il sistema Italia della spinta fondamentale per fare il salto di qualità. In generale le amministrazioni fanno fatica a fuoriuscire dal modello di gestione del personale fondato su rigidità anacronistiche nella gestione dei rapporti di lavoro, privo di flessibilità e mobilità del personale. Il progressivo scollamento che si è registrato tra i percorsi scolastici e formativi e il mercato del lavoro è all’origine del mancato ricambio generazionale, ivi compreso quello imprenditoriale. Il mancato apporto delle nuove generazioni nel sistema produttivo si sta riflettendo negativamente sui livelli di innovazione e della produttività.

Nella loro negatività, questi ritardi danno evidenza anche del potenziale di crescita inesplorato e che potrebbe essere utilizzato per rimettere il nostro Paese su un percorso di crescita. Sempre ammesso che la scelta di destinare le risorse verso una politica rivolta a privilegiare gli investimenti in infrastrutture, innovazione e valorizzazione delle risorse umane venga rimessa al centro delle iniziative della classe dirigente politica e delle parti sociali.