Dalla volontà di rilevare la presenza mediante impronte digitali o analisi dell’iride alla logica del risultato e del lavoro agile. In pochi mesi il Governo (che in questi mesi ha anche cambiato colore) cambia di 180 gradi, almeno a parole, la politica del lavoro pubblico, passando da velleità di controllo formale influenzato da logiche di contrasto ai “furbetti” non prive di connotazioni populiste, alla scommessa sulla digitalizzazione, sulla capacità di valutare i risultati e sullo smart working.



È questo il messaggio che si coglie nelle dichiarazioni alla stampa rilasciate nei giorni scorsi dall’inquilina di Palazzo Vidoni, Fabiana Dadone. Per la prima volta, da anni, da quegli uffici si sente affermare: “Abbandoniamo il feticcio del cartellino, le polemiche sui furbetti, e iniziamo a far lavorare per obiettivi, con scadenze giornaliere, settimanali, mensili”. Sarebbe un passo decisivo verso una Pubblica amministrazione davvero nuova, verso una concezione del lavoro adeguata agli inevitabili adattamenti imposti dalle tecnologie e dai tempi.



Inutile negarlo: tra i costi che affrontano cittadini e imprese, nel loro rapporto con la Pa, oltre a imposte e tasse, vi è il tempo che si impiega per l’accesso personale a uffici e sportelli. Tempo e costo degli spostamenti, tempo e costo per l’attesa in fila, tempo e costo per la relazione diretta presso l’ufficio, tempo e costo per il rientro. Il tutto, peraltro, compresso necessariamente entro le fasce dell’orario di “ricevimento del pubblico”, che stringono il collo di bottiglia, rendono le file più assembrate e scomode, allungano a dismisura gli slot per l’attesa.



Chiunque abbia chiesto una carta di identità elettronica sa esattamente di cosa stiamo parlando: sperare di poter fissare un appuntamento prima di molte settimane è utopia, immaginare di poter ottenere la carta da remoto impensabile.

Il lockdown ha dimostrato che un deciso cambio è possibile. Al di là di tutte le resistenze che in questi anni si sono opposte con estrema fermezza alla semplificazione, alle autocertificazioni, al codice dell’amministrazione digitale, alla digitalizzazione dei servizi, alla flessibilizzazione degli orari, all’applicazione delle regole che debbono favorire un lavoro basato sulla produzione di valore in base a obiettivi misurabili, agli investimenti connessi. Il lavoro agile, che l’articolo 14 della legge 124/2015 aveva provato a rendere obbligatorio per almeno il 10% dei dipendenti pubblici (obiettivo davvero minimale) entro il 2018 ancora fino al 10 marzo 2020 era come la mosca bianca. Con la sua applicazione obbligatoria si è scoperto (ma era facile comprenderlo) che la sua sostanziale inattuazione nella Pa era frutto non di impossibilità oggettiva, ma di pigrizia mentale e di mancanza di volontà.

Certo, non tutto poteva funzionare a dovere. L’assenza di investimenti ha prodotto il paradosso che il legislatore abbia implorato i dipendenti pubblici di mettere a disposizione i loro pc, i loro smartphone, le loro connessioni, mentre non tutti gli applicativi informatici erano pienamente disponibili in rete; allo stesso modo, mancavano reti virtuali efficienti e sicure. Ma, in pochi giorni, le Pa hanno compiuto passi da gigante, tutti quei passi che nei cinque anni precedenti si erano ostinate a non compiere.

Il ministro Dadone sembra aver compreso quel che occorre, per evitare di perdere l’abbrivio derivante dalla disgrazia della pandemia. Ha affermato che il lavoro agile “non si tradurrà solo in un ‘lavorare da casa’, ci saranno anche delle postazioni di co-working”. Condivisibile. Il lavoro agile è stato svolto prevalentemente da casa, durante il lockdown, per esigenze di contrasto al contagio, ma a regime non è così che funziona. Il co-working consente al dipendente dell’ufficio A di lavorare anche se si trovi nell’ufficio B, in altra sede, in altro luogo; e potrebbe lavorare persino in una sede privata, considerata idonea e sicura. Si pensi alla possibilità per le grandi città di evitare il traffico e l’inquinamento dovuto a spostamenti di dipendenti pubblici da un quadrante all’altro, senza incidere sull’efficienza.

Correttamente, l’inquilina di Palazzo Vidoni pone l’accento sulla necessità di “un cambio di mentalità, nella formazione del personale e nel ruolo dei dirigenti. Chi lavorerà in smart-working e per quanto tempo lo decideranno in autonomia le diverse amministrazioni” e sulla necessità che gli investimenti vadano “in questa direzione, per fare formazione e dotare di strumenti adeguati la Pubblica amministrazione”.

Il cambio di mentalità è fondamentale. Il primo nemico del lavoro agile, che è indispensabile per la semplificazione, la dematerializzazione degli atti e la digitalizzazione dei procedimenti, è proprio la pigrizia mentale. Le resistenze contro lo smart working non mancheranno e si sono, del resto, manifestate anche durante il lockdown. Troppi decisori politici, ma anche troppi dirigenti pubblici sono abbarbicati a una concezione obsoleta del lavoro, secondo la quale esso è da riconnettere necessariamente allo scambio “io ti do lo stipendio a fronte del tuo obbligo di mettermi a disposizione un certo numero di ore del tuo tempo”. Il lavoro viene concepito esclusivamente come atto di sottomissione a uscire di casa, affrontare uno spostamento fisico, entrare nella sede di lavoro, “timbrare” il cartellino, restare fisso in sede e poi “timbrare” in uscita, con “il presidio” del posto come feticcio, consolatorio e spesso financo sostitutivo della concreta e utile attività.

Quanti sono i dipendenti addetti a sportelli decentrati, ai quali non accedono che pochissimi utenti, posti accanto a telefoni che non squillano, intenti ad attività di nessun valore concreto. Quanti svolgono la propria attività senza una chiara predeterminazione dei risultati o prodotti da conseguire, senza una determinazione di tempi standard e indicatori di qualità, senza chiari obiettivi da cogliere. Il tutto, perché la Pa si è troppo abituata a vivere nel giorno per giorno, senza programmazione, senza valutazione dei risultati.

Lo smart working è lo strumento fondamentale per abbandonare queste logiche “analogiche” del lavoro, peraltro inefficienti visto che non sono servite a evitare, appunto, il fenomeno dei “furbetti” del cartellino, possibile solo perché esclusivamente in uffici nei quali non si sa che cosa facciano i dipendenti questi si possono assentare senza farsene accorgere.

Attenzione, quindi, alle resistenze. Il decreto “rilancio” all’articolo 263 consente un parziale allentamento del lavoro agile, in funzione della riduzione della rigorosità delle misure di distanziamento sociale, ma già in tantissime amministrazioni lo si legge come una sorta di “liberazione dallo smart working”, con tanto di esultanza per il “rientro in ufficio”. Il cambio di mentalità e gli investimenti, dei quali saggiamente parla il ministro, sono la chiave. Ma, anche una decisa azione contro chiunque, dal politico al dirigente, mostri di tirare indietro in un’inaccettabile lotta di retroguardia contro il lavoro agile, è un elemento da considerare imprescindibile.