Il “tempo sospeso” indotto dal coronavirus ha stimolato l’immaginazione del “dopo” sotto diversi punti di vista, sia in termini di incertezza, sia in termini di nuovi orizzonti. Si rischia però di cedere alla grave miopia di cui generalmente soffrono tutte le visioni storicistiche, dove l’ottimismo (o il pessimismo) legato al fine ultimo, ritenuto pienamente accessibile all’intelligenza umana, finisce per sovrastare tutto il resto.
Per dirla molto semplicemente, tra il tramonto del vecchio (il “prima”) e l’alba del nuovo (il “dopo”) esiste una terra di mezzo, fatta di palude e di nebbia, di oscurità totale o parziale, che può andare avanti a lungo e nessuno, in fondo, è in grado di quantificarne la durata.
A offrirmi questa immagine un po’ tetra, ne convengo, è stata l’esaltazione oltremisura dello smart working, lavoro flessibile esercitabile da luogo remoto, al di fuori dalla propria sede di assegnazione abituale, da altri punti condivisi (“hub”), messi a disposizione dal datore di lavoro, o, più comunemente, dalla propria abitazione. Tale modalità di lavoro era già diffusa in Italia prima della pandemia: secondo un’indagine condotta dal Politecnico di Milano, nel 2019, il 58% delle grandi imprese ha introdotto un progetto strutturato di smart working e il 5% si è dichiarato pronto a introdurlo, mentre nelle PMI il fenomeno è comunque in crescita, pari al 12%; l’indagine, poi, stimava circa 570 mila persone interessate da smart working a fine 2019 (il 20% in più rispetto al 2018). Anche nella Pubblica amministrazione il fenomeno è in crescita e per il prossimo anno potrà risultare decisivo, considerate le misure contenute nel decreto rilancio, per favorire modalità di lavoro agile a valere almeno sul 50% degli impiegati.
Molti guardano alla pandemia come a un potente acceleratore, visto che il numero degli smart worker è esploso ad oltre 4 milioni, a partire dal lockdown. Con lo smart working il lavoratore acquisisce maggiore autonomia e responsabilità nei risultati; non si tratta semplicemente di conciliazione vita-lavoro in funzione di un più equilibrato benessere. Alla radice vi è il passaggio dalla direzione e controllo alla fiducia collaborativa, che sembra rappresentare la valorizzazione piena del rapporto fiduciario tra imprenditore e lavoratore, alla base del concetto di lavoro dipendente; tutto ciò è reso possibile da flessibilità organizzativa interna all’azienda e dall’impiego di tecnologie digitali che consentono di operare in maniera efficace.
Naturalmente vi sono indubbi vantaggi. Secondo un sondaggio citato da Il Sole 24 Ore, è stato smentito il falso mito che lavorare da casa significhi lavorare di meno: per il 44% del campione è aumentata la gratificazione personale e per il 65% ha influito positivamente sui propri risultati professionali.
Tuttavia, gli effetti di ciò che muta per evoluzione culturale-antropologica non sono assimilabili agli effetti di ciò che viene drasticamente imposto dalla natura: l’emergenza Covid-19, infatti, ha costretto allo smart working per rispettare le misure di limitazione e di contrasto alla pandemia; è stato, cioè, adottato in situazione estrema, dove lavoratori e non lavoratori erano obbligati a rimanere a casa, non potendo diversamente scegliere. Il vero smart working richiederebbe un cambiamento culturale profondo nel modo stesso di concepire il lavoro, sia da parte dell’azienda, che deve pensare a nuovi modelli organizzativi, sia da parte del lavoratore, che deve, da un certo punto di vista, ricominciare da capo, cosa non così facile, soprattutto quando l’energia e la voglia di lavorare cominciano a essere ossidate dall’età.
Personalmente, sono convinto che lo smart working non sia – per lo meno ancora – la forma naturale del lavoro. Tralasciando i fattori legati ad ansia e stress – comunque emersi dal sondaggio citato – legati senza dubbio più alla contingenza emergenziale che al lavoro in sé, l’uomo è pur sempre un animale sociale e un rapporto virtuale non è la stessa cosa di un rapporto reale. Ha bisogno di uscire per andare al lavoro, di incontrarsi e scontrarsi con l’ambiente, con gli altri, anche estranei, di andare al bar o al ristorante (anche perché se no chiudono!), altrimenti la paura del contagio non sarà più solo sanitaria, ma antropologica, isolamento e rifiuto dell’altro.
È curioso, ma uno dei driver di sviluppo della Silicon Valley non è stato il collegamento virtuale: incontrarsi nei diversi ambienti, lavorativi ed extra-lavorativi, ha favorito la circolazione delle buone idee e la nascita di tante occasioni impreviste. Ma per questo ci vuole tempo, calma e riflessione. Confondere l’imprevisto con l’improvvisazione sarebbe senz’altro un errore capitale.