Negli ultimi anni, in particolare in quelli segnati dalla diffusione del virus Covid-19, stiamo assistendo a una capillare diffusione di nuove forme di lavoro a distanza. Questo fenomeno ha, più in generale, impresso un’accelerazione ai lenti processi in corso all’interno dei diversi mercati del lavoro
La maggiore diffusione ha riguardato il lavoro agile o “smart working” che dir si voglia. Questo si sostanzia, fondamentalmente, in una modalità di svolgimento della prestazione di lavoro subordinato caratterizzata dall’assenza dei classici vincoli di luogo e di tempo e dall’alternanza tra lavoro in presenza fisica e da remoto.
In particolare, il lavoro agile “emergenziale”, quello per intendersi sviluppato durante il lockdown del 2020, si è caratterizzato come una specie di “telelavoro”, anche se almeno formalmente distinto da esso, e con una regolazione derogatoria rispetto alle normative di riferimento, che veniva spesso denominato, più correttamente, “home working, in quanto doveva necessariamente avvenire in via continuativa da remoto dal proprio o in altro domicilio.
Secondo i dati di Inapp, durante la fase più acuta della pandemia i lavoratori da remoto sono stati quasi 9 milioni, scesi nel 2021 a oltre 7,2 milioni (il 32,5% del totale), di cui il 61% ha lavorato a distanza tre o più giorni a settimana. Nello specifico, il “lavoro agile semplificato” ha interessato ben il 73,4% dei lavoratori dipendenti.
Questo modello “ibrido” del lavoro agile ordinario ha stimolato fenomeni interessanti come quello del “south working”, sorto proprio durante il periodico pandemico in ragione dell’inversa “rotta migratoria” di lavoratrici e lavoratori che dal Nord, dove si erano trasferiti in quanto sede del proprio luogo di lavoro, sono rientrati nelle loro città di origine del Mezzogiorno per effetto indiretto dell’emergenza sanitaria.
Un fenomeno importante che ha coinvolto, e in futuro potrebbe ancora maggiormente coinvolgere anche le cd “Aree Interne” ossia quei territori più “fragili” del nostro Paese, distanti dai centri principali di offerta dei servizi essenziali e troppo spesso abbandonati a loro stessi, che però coprono complessivamente ben il 60% dell’intera superficie del territorio nazionale, il 52% dei Comuni e il 22% della popolazione.
Il lavoro da remoto potrebbe, insomma, rappresentare uno strumento utile per ripopolare e riattivare tutte queste piccole, e un pò abbandonate, realtà. Potrebbe rappresentare, infatti, anche per persone qualificate, un’alternativa all'”emigrazione” al nord e nelle grandi città.
Emergono, tuttavia, alcune criticità: un “digital divide” territoriale e diffuso importante che ci racconta di un Paese con una copertura della rete wi-fi non adeguata, soprattutto nei territori marginali e periferici, un quadro normativo e burocratico ancora troppo complesso, la scarsa conoscenza dell’inglese e una rete di trasporti, pubblici e privati non adeguata e non uniformemente distribuita sul territorio nazionale.
La scelta di andare a “vivere in campagna” può, a determinate condizioni, essere, insomma, un fattore di sviluppo della Nazione. Molto, probabilmente, è ancora da fare, ma riportare dentro una prospettiva di sviluppo parti del Paese che, per molte ragioni, oggi sono al margine è, certamente, una delle sfide più affascinanti che siamo chiamati ad affrontare nei prossimi anni.
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