Il periodo nel quale stiamo vivendo è quello della quarta rivoluzione industriale, anche definita come Industria 4.0, che rende possibile lo smart working. Questa nuova filosofia manageriale presenta come principio cardine quello di fornire maggiore discrezionalità al lavoratore in termini di scelta legata al dove lavorare, in quali orari, con quali strumenti, il tutto a fronte di una maggiore responsabilizzazione sui risultati. Adottare un progetto di smart working di successo richiede uno studio meticoloso sulle quattro leve individuate da Mariano Corso, Responsabile scientifico della School of Management del Politecnico di Milano, che sono:
1) le policy organizzative, intese come regole e linee guida da adottare e che riguardano orari, luogo e strumenti di lavoro da adottare al fine di raggiungere gli obiettivi stabiliti in sede di pianificazione strategica;
2) le tecnologie digitali, che, nell’era della digital transformation,vengono sfruttate per connettere persone, spazi e oggetti ai processi di business adottati dall’impresa. Ciò comporta una più efficace ed efficiente collaborazione e comunicazione nell’impresa, grazie alla creazione di veri e propri network di relazioni professionali intra-extra impresa;
3) il layout fisico degli spazi di lavoro, i quali devono essere ripensati in maniera intelligente, in modo tale da fornire al lavoratore un luogo che sia adatto alle necessità professionali del singolo;
4) lo stile di leadership adottato dal manager è l’ultima, ma non meno importante, leva. Infatti, un modello di smart working di successo prevede l’adozione da parte dei manager di stili di direzione diretti a creare un’identità di flessibilità aziendale, a incentivare uno spirito di aggregazione e coesione del gruppo e a fornire empowerment al lavoratore. In tal modo il lavoratore si sentirà parte integrante dell’organizzazione, di conseguenza aumenterà la motivazione e come in un circolo virtuoso la produttività salirà.
Oggi anche le istituzioni hanno percepito le potenzialità che può portare lo smart working. Lo testimonia l’entrata in vigore della legge n. 81/2017, ovvero il Jobs act sul lavoro autonomo, che tende a disciplinare il contratto di lavoro agile. Nel contratto si vanno a regolare: flessibilità organizzativa della prestazione lavorativa (in termini di orari, luoghi e strumenti di lavoro), l’esercizio del potere disciplinare e di controllo esercitato dal manager, i tempi di riposo, il right to disconnect e la tutela del lavoratore in caso di infortuni, gravidanze e patologie che necessitano di un allontanamento dal lavoro per un determinato periodo di tempo. L’interesse delle istituzioni ha portato a rivedere il concetto di lavoro agile con l’adozione della Legge di bilancio del 2019, nella quale è stato disposto che i manager sono obbligati a dare priorità a due categorie di soggetti: alle madri nel triennio successivo al termine del congedo obbligatorio di maternità; ai lavoratori con i figli in condizioni di disabilità ai sensi della legge 104.
Tutto ciò ha creato un polverone. L’economista Marco Leonardi ha infatti mostrato il suo disappunto per questa manovra. Egli afferma che lo smart working è una potenzialità che va sfruttata, un vero e proprio trend da seguire, pronto a rivoluzionare il modo di lavorare. Inoltre, Leonardi afferma che la creazione di queste “corsie preferenziali” per talune categorie di soggetti inibisce la crescita e lo sviluppo dello smart working. Dai dati raccolti dall’Osservatorio dello smart working della School of Management del Politecnico di Milano si evince che lo smart working è poco sviluppato. Infatti gli smart worker sono circa 480.000, il 2% del totale degli occupati secondo i dati Istat del luglio 2019 (23,4 milioni). Un numero ancora troppo basso, che dimostra come nel nostro Paese vi sia una scarsa predisposizione culturale e manageriale a questo tipo di cambiamento.
Questa è la dimostrazione come i manager italiani siano ancorati a schemi di gestione che prevedono un controllo asfissiante del lavoratore e incentrati sul tenere il lavoratore in ufficio, ancorato a una sedia con orari prestabiliti e improponibili, come se la produttività fosse direttamente proporzionale alle ore di lavoro passate in ufficio. Bisogna scardinare questa mentalità obsoleta, che manca incredibilmente di flessibilità e che a lungo andare incide sulla motivazione del lavoratore. Così facendo il lavoratore si rispecchierà maggiormente nella Teoria X del lavoro di McGregor, e oggi questo non possiamo permettercelo.
Lo smart working non è un semplice lavoro da casa, è molto di più. Oltre alla già citata flessibilità in termini di scelta di luogo, orario e strumenti di lavoro, lo smart working consente al lavoratore di gestire al meglio il tempo che ha a disposizione e di migliorare l’equilibrio vita lavorativa-vita personale. Lo smart worker ha una maggior consapevolezza delle mansioni che gli sono state affidate e grazie all’adozione di politiche come il desk sharing (dirette a favorire collaborazione, lavoro di squadra e creatività) vede incrementare la trasversalità delle proprie competenze. Inoltre, lo smart worker non avrà bisogno di raggiungere l’ufficio e questo comporterà una diminuzione del traffico veicolare in città, migliorando la viabilità urbana e riducendo l’inquinamento ambientale.
Ovviamente ci sono anche punti deboli dello smart working, come ad esempio sottovalutare una mansione, essere continuamente distratti perché si lavora in casa o anche sviluppare una percezione di un senso di isolamento circa le dinamiche d’ufficio. La considerazione di questi punti deboli non deve frenare lo sviluppo del lavoro agile. C’è bisogno di cambiare. Abbiamo bisogno delle istituzioni, che potrebbero percorrere la strada di politiche di promulgazione del lavoro agile o che potrebbero finanziare con incentivi tutti quegli imprenditori vogliosi di cambiamento, di questo cambiamento.
Allo stesso tempo dobbiamo affidarci ai cosiddetti millennials, ovvero le nuove generazioni, nate e cresciute con la visione di lavoro flessibile. Abbiamo bisogno di una ventata di aria fresca, tirandoci fuori da un’ottica di piccolo contesto che ci attanaglia e che non permette di aprirci alla competitività e all’innovazione, in un mondo che va veloce e che ci vuole sempre più smart, connessi e veloci.