Nel rapporto Svimez del 2019 si legge che circa due milioni di persone del Sud Italia sono emigrate verso zone più accoglienti dal punto di vista lavorativo rispetto alla loro terra d’origine nel periodo 2002-2017. I dati descrivono un trend costante negli anni, con picchi raggiunti dopo la crisi del 2007-2008. Nel 2017 hanno lasciato il Mezzogiorno circa 130 mila persone, metà delle quali di età inferiore ai 35 anni, un terzo con una laurea in tasca e alla ricerca di una sistemazione professionale che più potesse corrispondere al percorso di studi intrapreso all’università. Stessi numeri sono stati registrati per il 2018 e il 2019, confermando una tendenza che, lentamente, sta portando allo spopolamento di intere aree del meridione, soprattutto nella fascia appenninica.



Concentrandosi sulla fase più dura della crisi successiva al 2007, si nota che tra il 2008 e il 2015 il saldo migratorio netto conta 635 mila persone, con più dell’80% giovani; non desta certo meraviglia questa fuga delle nuove generazioni, in quanto nelle regioni del Mezzogiorno il tasso di disoccupazione giovanile supera, in media, il 40%. Se si uniscono questi numeri al decremento del tasso di natalità, si deduce che il Mezzogiorno potrebbe trovarsi ad affrontare nei prossimi anni un processo di desertificazione senza precedenti, specie nelle aree interne.



Le mete preferite dei giovani meridionali nel periodo iniziale della crisi erano le nazioni estere, soprattutto europee: Inghilterra, Germania, Francia. Gli aeroporti del nostro Paese si riempirono di ragazzi con piccole valigie alla mano per evitare i costi aggiuntivi delle compagnie aeree low cost. Molti, invece, ripresero la vecchia rotta transoceanica verso l’America del Nord, sostituendo però il mezzo di trasporto, dal transatlantico ai velocissimi Boeing. In realtà, questo fenomeno era tutt’altro che sconosciuto. Tra il XIX e il XX secolo milioni di italiani lasciarono il Paese per gli Stati Uniti, l’America Latina, l’Australia, ecc., trovandosi spesso in realtà poco accoglienti sia dal punto di vista lavorativo che sociale, essendo spesso vittime di episodi di intolleranza e di ghettizzazione.



Nel secondo dopoguerra il processo migratorio cambiò volto, non volgendo più lo sguardo al di là delle Alpi, ma guardando in casa propria. Durante il boom economico milioni di meridionali abbandonarono le campagne per affollare i quartieri popolari delle grandi città del Nord, Torino e Milano su tutte. Un posto da operaio nella Fiat divenne il sogno di parte di quel mondo agricolo che dopo un secolo dall’Unità nazionale non aveva ancora risolto i suoi problemi di sussistenza. Tuttavia, la nascita di un intervento pubblico maggiormente istituzionalizzato per risolvere lo storico divario tra aree differenti del Paese aveva parzialmente ridimensionato il fenomeno migratorio, offrendo la possibilità, soprattutto con i finanziamenti legati alla Cassa per il Mezzogiorno, di vivere nelle proprie zone d’origine, senza l’obbligo di dover cercare altrove un futuro migliore per la prole.

La stagione delle privatizzazioni, tra gli anni Ottanta e Novanta del secolo scorso, ha sottratto al Sud le importanti iniziative statali volte al recupero delle aree arretrate; lo smantellamento di parte di quel grande sistema di welfare creato con politiche di stampo keynesiano e le successive crisi cicliche portate dalla natura stessa del neoliberismo hanno fatto compiere al meridione un passo indietro, riscoprendo la soluzione migratoria già a partire dai primi anni del nuovo millennio, e confermando la stessa scelta nei periodi di intensificazione della crisi.

Dunque, l’emigrazione nel nostro Paese è cambiata molto nel corso delle epoche. I primi flussi migratori riguardavano soprattutto contadini, che andavano in città ad accrescere le fila della manodopera scarsamente specializzata e facilmente sostituibile. Oggi, con il cambiamento del mercato del lavoro, con la terziarizzazione della nostra economia, ad andarsene dal Sud sono in parte giovani laureati che hanno assistito a un deterioramento della loro qualità di vita e che desiderano affermarsi in un ambiente lavorativo che più si addice al percorso di studi portato a termine negli atenei meridionali. Circa il 33% dei giovani migranti meridionali è in possesso di laurea e di corsi di specializzazione post-laurea, master o altro; dunque, si tratta di persone con altissima formazione professionale, un curriculum di tutto rispetto, che un tempo sarebbero entrati nella classe dirigente del loro luogo d’origine. Tuttavia, attualmente essi rappresentano la nuova working class, poiché in un contesto in cui il numero dei laureati è aumentato in modo esponenziale negli ultimi trent’anni, ma al di sotto della media dell’eurozona, la loro posizione è messa perennemente in discussione: essi sono la nuova manodopera intellettuale facilmente sostituibile, anche a causa delle politiche aziendali di molte imprese che hanno scelto di privilegiare la flessibilità lavorativa piuttosto che vincolare il personale con contratti stabili per ragioni fiscali.

Così, molti giovani professionisti entrano nel mondo del lavoro da precari e mantengono la stessa condizione per anni. La precarietà si riflette nelle scelte di vita: il tasso di natalità decresce in quanto si alza l’età matrimoniale in attesa della stabilità lavorativa; per loro è difficile ottenere un mutuo per comprare una casa, o un prestito per arredare un appartamento preso in affitto. Essi preferiscono spendere il ricavato del loro lavoro in attività ludico-ricreative, affascinati dai ritmi di vita e di consumo moderni e da tutto ciò che l’ambiente cittadino offre. Frequentano bar, discoteche, palestre, sushi-bar, enoteche, cinema, musei e centri culturali, negozi di moda e altro. Sottoscrivono abbonamenti ai mezzi pubblici, pagano affitti ai privati e utenze domestiche alle società di servizi, comuni compresi. Il loro reddito, in sintesi, è speso in loco.

L’esigenza pandemica attuale ha modificato i paradigmi lavorativi di moltissimi di questi migranti professionali. Coloro che lavorano all’interno di uffici, sia pubblici che privati, nelle scuole, in aziende hi-tech, e altro, hanno conosciuto per la prima volta nella loro vita il lavoro a distanza, lo smart working, grazie ai nuovi supporti informatici offerti dalla tecnologia del nostro tempo. Hanno trascorso le loro giornate dinanzi al monitor del pc, rispettando scadenze e offrendo i loro servizi in modo simile rispetto al periodo pre-Covid. Tutto ciò ha stimolato nell’animo di coloro che vivono nella grande area urbana lombardo-piemontese, ma vorrebbero ricongiungersi con le loro famiglie al Sud, una riflessione generale sulle potenzialità di questo nuovo modo di intendere il lavoro.

In effetti, nei casi possibili, questo modello di lavoro a distanza potrebbe essere una soluzione per chiunque voglia riunirsi con la famiglia senza perdere il lavoro; in più, oltre al fattore sentimentale, potrebbe incoraggiare una ripresa dell’economia meridionale attraverso il ritorno al Sud di migliaia di giovani e, di conseguenza, un incremento del consumo nei territori di appartenenza. In molti casi, gli stessi servizi ludico-ricreativi offerti nelle città del Nord sono disponibili anche nelle aree urbane del Mezzogiorno, dove, invece, a mancare è il lavoro.

Molti ragazzi nelle città di provincia del meridione, inoltre, hanno anche a disposizione una casa di proprietà, oppure pagherebbero una pigione di gran lunga inferiore rispetto agli affitti del Nord Italia. Viaggerebbero soltanto per turismo, non limitandosi ai classici spostamenti lavorativi, che spesso si riducono a un itinerario ristretto tra aeroporti, luoghi di lavoro, alberghi e di nuovo aeroporti, senza avere la possibilità di vivere realmente il viaggio da un punto di vista culturale. Migliorerebbe la qualità della loro esistenza e le finanze della macro-area interessata, favorendo indirettamente anche la crescita del tasso di natalità, grazie a una maggiore sicurezza. A beneficiarne sarebbero anche le istituzioni pubbliche locali, con un aumento del gettito fiscale per i comuni, grazie alla crescita del numero dei propri residenti. Anche le imprese risparmierebbero i rimborsi delle trasferte dei propri dipendenti, poiché convegni, riunioni e quant’altro potrebbero essere facilmente svolti tramite piattaforme telematiche.

In poco tempo si potrebbero invertire le tendenze macroeconomiche, in quanto questa schiera di giovani professionisti, grazie alle loro conoscenze scientifiche e umanistiche, contribuirebbero a migliorare le condizioni del territorio, dando anche un giusto peso all’istituzione universitaria che ha investito per la loro formazione. In sintesi, questa potrebbe rappresentare un’occasione per un minimo riequilibrio del divario storico tra aree differenti del Paese.

Lo Stato in fase post-riapertura ha il compito di intervenire per riproporre un modello di sviluppo per il Sud, riprendendo quel discorso accantonato da decenni, ma in salsa contemporanea, sfruttando le nuove tecnologie a disposizione, sostenendo la diffusione capillare su tutta la superficie nazionale delle infrastrutture informatiche che consentono connessioni ad alta velocità. In materia di sostegno all’impresa, parte dei finanziamenti europei dovrebbero essere convogliati verso politiche di sgravi fiscali per chi assume con contratti stabili giovani laureati con un regime di smart-working, prediligendo soprattutto il settore green e l’economia circolare che, come sottolineato da Amedeo Lepore, possono rappresentare un comparto rivoluzionario per tutto il sistema economico meridionale.

In tal modo, lo Stato creerebbe i presupposti per una ripresa economica di una parte d’Italia da sempre laboriosa, ma storicamente poco organizzata, con una sinergia tra imprese tradizionali, aziende dedite al settore dell’economia sostenibile, sviluppo infrastrutturale e ricerca universitaria. Soltanto così la dura lezione del Covid, che ha riportato momentaneamente l’uomo nella sua condizione originaria di individuo sottoposto alla natura, potrà essere trasformata in un nuovo punto di partenza per l’Italia.