“Non ci serve il manuale delle giovani marmotte con un caso per ogni evenienza, ma una maggior consapevolezza di ciò di cui stiamo parlando”, spiega al Sussidiario Fabio Mercorio, docente di Computer Science nell’Università Milano Bicocca. Agli adulti, e agli insegnanti, serve un metodo: ma devono mettersi al lavoro, “capire cosa hanno davanti e trovare un criterio di utilizzo”. E per fare questo, serve apertura.



Oggi gli smart device, le piattaforme social, gli algoritmi affollano l’esistenza dei giovanissimi, con importanti conseguenze. Ma il digitale e l’AI vanno innanzitutto compresi. Se ne parla oggi al Meeting di Rimini.

Professore, lei parlerà su “Social ed Intelligenza Artificiale: non serve lo schermo per crescere smart”. È un titolo provocatorio?



Certamente nasce da una domanda provocatoria, che mette insieme elementi della vita quotidiana nostra e dei nostri figli, cui ormai non possiamo più sottrarci: i dispositivi digitali e gli smart device, le piattaforme social che surrogano l’amicizia ed i rapporti, gli algoritmi che mediano ogni contenuto digitale che leggiamo, ascoltiamo o prodotto che acquistiamo, ed infine l’impatto – anche a lungo termine – che queste tecnologie hanno su coloro che le utilizzano. Se poi si aggiunge la velocità con la quale le tecnologie si sviluppano e si diffondono – soprattutto nell’età evolutiva –, si intuisce il sottostante della domanda: cercare di capire meglio di cosa stiamo parlando per avere dei criteri con cui agire nel quotidiano. Non il manuale delle giovani marmotte con un caso per ogni evenienza, ma una maggior consapevolezza di ciò di cui stiamo parlando, di cosa accadendo e un’ipotesi di criteri per affrontare la sfida educativa che ci aspetta.



Quindi un incontro rivolto ai genitori per gestire i figli sul tema digitale, social ed AI?

No, un incontro rivolto “anche” ai genitori, per mettersi al lavoro e capire cosa sta succedendo nella rivoluzione digitale e dell’AI. Non abbiamo la verità in tasca. Se posso dirla con un esempio, non è come insegnare ad andare in bicicletta: un criterio che ciascuno porta impresso nell’esperienza e che si rinnova tra generazioni. Oggi anche l’adulto deve capire cosa ha davanti e trovare un criterio di utilizzo, per sottoporlo al figlio: deve mettersi al lavoro! Nessun genitore si sognerebbe di insegnare al figlio ad andare in bici dicendo: “prova e vedi se riesci!” guardandolo dalla sedia.

Lo accompagna, gli suggerisce un metodo.

Esatto. Magari il suo di quando era piccolo, dei criteri tratti dall’esperienza, e lo supporta nelle cadute. Potrebbe insegnargli se non avesse idea di come sia fatta una bicicletta? Non è necessario essere ciclisti esperti o saperla smontare e rimontare, è necessario un criterio ed un’esperienza. E spesso non abbiamo neppure la consapevolezza del compito educativo: cioè che dobbiamo insegnare ai nostri figli a stare di fronte ad una realtà digitale. Sentiamo questo compito nei riguardi dei nostri figli con lo smartphone? Con i social che alterano i rapporti amicali? Con i contenuti mediati dall’AI? Temo di no, e temo che questo “disimpegno” nasca da due fattori.

Quali?

Primo, tendiamo a confondere il reale con il materiale: il fatto che non “vediamo” e “tocchiamo” l’esperienza dei nostri figli nel mondo digitale, chiamiamolo così, ce la rende meno concreta, meno materiale, meno immediatamente percepibile, ma è estremamente reale.

E il secondo fattore?

Capire il nuovo, soprattutto se diverso, è faticoso, e quindi tendiamo a derubricare il mondo digitale e le sue evoluzioni ad una cosa per “giovani”, una moda passeggera: noi abbiamo avuto la tv, loro lo smartphone, i social e l’AI, ma non è la stessa cosa e non è la stessa esperienza.

Perché?

Per questo abbiamo organizzato l’incontro, un dialogo tra un informatico – il sottoscritto –, uno psicologo dell’età evolutiva e un esperto di educazione digitale, per aiutarci a far luce sul compito educativo che ci aspetta. Vogliamo innanzitutto comprendere meglio le tecnologie che abbiamo intorno, per poi discutere, sulla base delle evidenze scientifiche degli ultimi anni, quale sia l’interazione tra i minori e gli schermi e il ruolo della società, dei genitori e della scuola nell’educare a vivere bene in un mondo digitalizzato.

Quindi anche i genitori devono diventare più “smart”?

Non necessariamente più tecnologici, ma smart nel senso dell’essere aperti a conoscere e giudicare un nuovo elemento della nostra vita: il mondo digitalizzato e tutto ciò che comporta, soprattutto nel compito educativo. Anche perché corriamo, io credo, il rischio di commettere un errore grave: quello di non riuscire a vedere – e quindi proporre ai nostri figli – il bello che si cela nel digitale e nelle sue discipline, di concentrarci solo sui “rischi”, che certamente esistono, senza cogliere il positivo, perché l’apatia genera paura, e la paura non è la stoffa di cui è fatta l’educazione.

(Max Ferrario)

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