Nel 2016 furono proprio i social i migliori alleati della campagna presidenziale di Donald Trump, favorendo con metodi discutibili la sua elezione. Oggi il Presidente degli Stati Uniti ancora in carica fino al 20 gennaio non è più un utente gradito. Bloccati gli account di Facebook e Instagram. Sospeso il suo profilo Twitter. Oscurato il suo canale YouTube. Spenta la piattaforma Parler punto di aggregazione delle frange estremiste dei sostenitori trumpiani. Insomma, una funzione pubblica seppure in scadenza, ora più che mai dopo essere stato messo per la seconda volta in stato di accusa dalla Camera, è stato zittito dagli oligarchi della Big Tech. Il motivo, arcinoto ormai, è che durante l’assedio di Capitol Hill, Trump ha sobillato i suoi sostenitori continuando ad affermare che le elezioni erano state truccate. E, come ha scritto Mark Zuckerberg, è stato ritenuto che “i rischi di consentire al Presidente di continuare a utilizzare il nostro servizio durante questo periodo fossero semplicemente troppo grandi”.
Più che un provvedimento prudenziale si avvicina piuttosto a una scelta politica che ovviamente ha sollevato critiche, proteste, plauso, ma anche preoccupazione da parte di esponenti politici che non hanno mai nascosto la loro avversione per lo stile trumpiano, vedi la Cancelliera Merkel che ha definito la mossa “problematica” così come il Commissario europeo Breton. Eppure, Trump non è che uno dei numerosi casi in cui account privati sono stati zittiti da algoritmi dei social per presunta violazione delle regole di Twitter (gli algoritmi sono privati e le piattaforme si guardano bene dall’aprire la “scatola nera” del loro modus operandi). Con 88 milioni di follower il profilo di POTUS che ricopre un ruolo pubblico, non è un blackout che passa inosservato.
Giusto o sbagliato? Esprimersi liberamente sui social rientra nei diritti fondamentali della persona fisica? I social hanno compiuto un abuso di potere della propria posizione dominante? Oppure è Trump che ha deliberatamente ecceduto travalicando il diritto di critica con l’incitamento alla violenza, all’odio, godendo, per anni, di “immunità social”. D’altra parte, si è sempre considerato i social media uno straordinario strumento di partecipazione democratica attiva, tant’è che il loro uso viene limitato e/o controllato nei regimi autoritari.
Tuttavia, per difendere la libertà di espressione dall’interferenza degli influencer che intossicano la conversazione globale al punto di minare i diritti e gli interessi legittimi delle parti coinvolte, secondo alcuni studiosi dell’infosfera, bisogna arrivare alla loro regolamentazione. Si pensa a una salvaguardia attuata azionando quattro leve: legislazione, pressione sociale dell’opinione pubblica, educazione degli utenti e competizione.
L’opinione pubblica sta cominciando a porsi il problema. Il legislatore europeo ha appena licenziato il pacchetto Digital Service Act che impone alle piattaforme obblighi di trasparenza, autoregolamentazione e interazione verso i soggetti più deboli. Crescere un’utenza informata con un campagne di sensibilizzazioni a tappeto per tutte le fasce di età. Infine, favorire la concorrenza; in questo senso va il progetto comunitario Gaia-X per dare vita a infrastrutture capaci di rivaleggiare con i big statunitensi.
Al margine della questione Trump, le manipolazioni informative online sono in crescita vertiginosa come indica il rapporto dell’Oxford Internet Institute secondo cui nel 2020 sono state organizzate campagne di disinformazione in 81 Paesi, rispetto ai 28 di tre anni fa. Le tattiche diventano più sofisticate: se nel 2016 erano in voga in Bot russi, oggi si tratta di contenuti curati da umani. La cyber-propaganda è spesso orchestrata da società di pubbliche relazioni: si contano 48 Paesi in cui società private hanno lavorato con i governi e i partiti politici per campagne di disinformazione pari a un giro di affari di 60 miliardi di dollari nell’ultimo decennio.
Se non saranno le istituzioni pubbliche a intervenire, non contiamo troppo sulla mediazione dei social. Dal momento che Twitter e Facebook hanno staccato la spina a Trump, il loro valore di mercato ha perso complessivamente 51 miliardi di dollari.