Il Giardino di Dio

Il tema dei cambiamenti climatici costituisce uno dei problemi più critici della nostra epoca. L’uomo è riuscito a “dominare” la Terra poiché non si è sviluppato adattandosi all’ambiente, ma ha adattato l’ambiente alle sue esigenze di sviluppo, con possibili e non sempre prevedibili conseguenze sull’habitat. Su queste tematiche siamo sottoposti a un continuo bombardamento dei media: quotidiani, televisione e documentari ci presentano, quasi quotidianamente, panorami da apocalisse. Si oscilla tra posizioni che sembrano ciecamente schierate su preconcetti, oppure determinate da paura o ignoranza. Da una parte il catastrofismo, quasi fossimo sull’orlo di un’estinzione di massa. Certe correnti di pensiero “demonizzano” ogni progresso scientifico e tecnologico e vedono addirittura l’uomo come il parassita della Terra, vagheggiando un utopico mondo in cui l’uomo viva in perfetta armonia con la natura. Altre posizioni sono all’opposto dominate da una sorta di noncuranza, incapace di guardare al di là del breve spazio di qualche decennio, come se qualunque intervento dell’uomo sulla natura fosse un diritto, senza alcun rispetto per quello che più volte Benedetto XVI ha chiamato «il giardino di Dio».
Il traguardo da raggiungere non è privo di difficoltà: si tratta di promuovere uno sviluppo sostenibile, uno sviluppo cioè che non freni l’impresa scientifica e le sue derivazioni tecnologiche, indispensabili per sostenere sulla Terra l’esistenza di un numero sempre crescente di abitanti (ci stiamo avviando verso i sette miliardi), facendo salva la necessità di salvaguardare la natura meravigliosa che ha reso il nostro un pianeta eccezionale, forse unico, permettendo a chi verrà dopo di noi di goderne ancora i frutti.



I modelli previsionali

Non vi sono facili risposte a questi problemi, ma partire da una corretta informazione scientifica rappresenta certo un giusto approccio. Le principali domande da porsi e a cui cercare possibili risposte sono a mio parere le seguenti: Quali sono le evidenze forti e quali le incertezze di un mutamento ambientale e climatico nei tempi recenti? Come si inserisce questo (possibile) cambiamento nell’ambito di una storia a lungo termine del nostro pianeta? Che conoscenza abbiamo del passato termico dell’ambiente terrestre? Con quali tecniche di misura è possibile ricostruire la “storia” del clima nelle varie epoche della Terra? Quali sono i principali fattori naturali conosciuti che hanno determinato, o possono determinare, cambiamenti climatici globali? Devono essere presi in considerazione fattori geofisici, quali i cicli geologici del biossido di carbonio (anidride carbonica), il ruolo delle masse oceaniche e il ruolo delle emissioni vulcaniche; fattori astronomici, quali l’inclinazione dell’asse terrestre, l’eccentricità dell’orbita della Terra, l’attività del Sole, la sua posizione rispetto al braccio della Galassia; e fattori accidentali, quali la caduta di asteroidi. Quali sono gli elementi antropici di maggior potenziale impatto sul clima globale? Se effettivamente ci avviamo a dover vivere in una Terra più calda, quale che sia la ragione, quali sono le conseguenze prevedibili? Come possiamo positivamente rispondere a questo nuovo scenario? Tutti questi problemi dovrebbero portare a farci prevedere cosa possiamo aspettarci nei prossimi, diciamo, 100 anni e, conseguentemente, se la prognosi per il nostro pianeta si rivelasse infausta, a individuare quali rimedi adottare.
Il punto di partenza è ricostruire l’evoluzione del clima nei millenni, anzi nelle centinaia di migliaia di anni che ci hanno preceduto, e, partendo da questo risultato, cercare di costruire un modello che permetta di fare previsioni per il futuro. La ricostruzione delle temperature, dei livelli di biossido di carbonio, dell’estensione dei ghiacciai è in corso di studio, e si hanno già risultati che ci permettono di risalire ad almeno un milione di anni fa, grazie soprattutto allo studio delle carote di ghiaccio estratte da profondità sempre maggiori nelle stazioni sperimentali dell’Antartide. Questo ci ha permesso di ricostruire una specie di “modulazione”, legata soprattutto agli agenti astronomici, delle ere glaciali, intervallate da periodi caldi, che si susseguono con una cadenza di circa 100.000 anni.
Attualmente stiamo vivendo un periodo caldo, chiamato interglaciale, siamo cioè certi che ci attende una prossima glaciazione, ma non siamo in grado di costruire un modello che ci permetta di stabilire se questa inizierà tra 1.000, tra 10.000 o tra ancora più anni. È evidente, a partire dall’inizio del secolo scorso, che vi è stato un aumento della temperatura media sulla Terra in tempi più rapidi di quanto non sia avvenuto in passato, ma non vi è la sicurezza scientifica che ciò sia dovuto a cause antropiche.
I modelli che permetterebbero di prevedere l’andamento del clima per, diciamo, i prossimi 100 anni, sono estremamente complessi, poiché possono descrivere con una certa precisione, tramite le equazioni della fluidodinamica, i moti fluidi dell’atmosfera e degli oceani, ma non riescono a tener conto dell’interazione fortemente non lineare tra i vari fattori. Oltre ai già citati fattori astronomici, vanno ricordati la chimica e la biologia delle vegetazioni, gli effetti delle nubi e delle polveri, e, non ultimi, quelli dovuti alle attività dell’uomo, in particolare all’utilizzo dei combustibili fossili, a sua volta legato all’incremento demografico e alla trasformazione di Paesi in via di sviluppo in Paesi fortemente industrializzati. È per questi motivi che esistono tanti modelli previsionali, e ogni esperto di climatologia tende a credere solo a quello che lui stesso ha costruito.



Non solo global changing

Parlando di ambiente è tuttavia essenziale evidenziare che non esistono solo le emergenze del global changing, ma anche quelle più vicine a noi, che comunque alle prime sono legate, con cui dobbiamo convivere ogni giorno e delle quali conosciamo bene le cause: sono i problemi d’inquinamento locale. Sono tutti ovviamente da imputarsi alle attività dell’uomo: l’inquinamento atmosferico, che rende irrespirabile l’aria delle nostre città, l’inquinamento acustico, che, per esempio, supera in città come Milano tutti i limiti imposti dalle normative sia in ore diurne sia durante la notte, l’inquinamento luminoso che, come dice in un bellissimo volume l’astrofisico Francesco Bertola, ci ha «rubato la Via Lattea». È endemico il problema dei rifiuti, che tutti producono ma che nessuno accetta di smaltire se non “altrove”. Almeno una buona parte di questi problemi potrebbero essere risolti introducendo opportune regolamentazioni o, dove esse già esistono, applicandole, e, cosa più difficile, sperando in un po’ di senso civico e di educazione da parte della gente.
Per quanto riguarda l’inquinamento acustico, esiste già da parecchi anni una norma che prevede che i comuni si dotino della cosiddetta “classificazione acustica”, cioè definiscano le zone della città in base al tipo di insediamento (industriale, semiindustriale, abitativo, aree sensibili o particolarmente protette, quali scuole, ospedali, case di cura). Per ogni zona, in base appunto a questa classificazione, viene imposto il massimo di rumore consentito in ore diurne e notturne. Orbene, moltissimi comuni non hanno ancora ottemperato a questa legge e non sono previste sanzioni per gli inadempienti.
È doveroso infine fare un accenno al problema dell’inquinamento dell’aria nelle città, notevolmente migliorato negli ultimi anni, ma ancora pericoloso, specialmente per le polveri sottili, i cosiddetti particolati (PM 10 e PM 2,5) che si insinuano nei polmoni producendo una serie di danni. Il problema non va sottovalutato, ma bisognerebbe evitare di seminare il terrore indicando addirittura il numero di morti dovuti a queste polveri, citando cifre ricavate non si sa bene con quale metodo. Il rinnovo del parco macchine e la sostituzione delle ancor troppo numerose caldaie a gasolio (e qui mi riferisco soprattutto a città come Milano) potrebbe portare a un sicuro miglioramento della qualità dell’aria. Il riferimento a Milano non è casuale: l’inquinamento atmosferico infatti risente molto delle condizioni climatiche (pioggia, vento, ecc.), che nella pianura padana sono veramente l’ideale per creare la peggiore situazione riscontrabile addirittura a livello europeo.



Conclusioni

Possiamo concludere che, pur evitando di spargere il terrore (in genere chi lo fa persegue degli scopi ben precisi, non sempre quelli di “salvare il mondo”), dobbiamo fare quanto è possibile per preservare le straordinarie, eccezionali prerogative del nostro pianeta, tenendo conto che quello stesso livello tecnologico per raggiungere il quale si sono creati tanti gravi problemi di inquinamento e di invivibilità nelle nostre città, sarebbe anche in grado di individuare i rimedi più efficaci per superarli. Il raggiungimento di condizioni di sviluppo sostenibile, cioè di un “patto” tra uomo e natura, non può prescindere dallo sviluppo della ricerca scientifica e tecnologica: considerarla soltanto una spesa come tante altre, e non un investimento per il futuro, limitando al minimo indispensabile le risorse a essa dedicate, sarebbe, questa sì, una vera catastrofe.