Quasi nessuno lo evidenzia, ma i DiCo costeranno molto. Non tanto per la spesa diretta (la legge parla di pochi milioni di euro), quanto per quella indiretta che, sebbene sia stata efficacemente nascosta, sarà enormemente più rilevante di quella indicata a copertura della legge. I costi deriveranno: 1) dai ricongiungimenti familiari: si potrà essere trasferiti alla residenza del convivente. Molti insegnanti, ad esempio, torneranno al Sud: in Francia, da questo punto di vista, l’impatto economico dei Pacs è stato enorme; 2) dalla pensione di reversibilità: la legge non la disciplina direttamente, ma prevede fermamente che dovrà essere introdotta; 3) dai permessi di soggiorno che gli stranieri conviventi potranno chiedere; 4) dall’abbassamento della tassa di successione; 5) dalle politiche di edilizia pubblica. Sommando tutte queste voci di spesa indiretta, di cui ben pochi parlano, i costi dei DiCo diventeranno davvero rilevanti, soprattutto in termini di esternalità negative.
Questi costi verranno pagati con risorse pubbliche, anche se si tratta – tale è la normativa sui DiCo – di semplici preferenze individuali (pertanto il contratto, e non la legge, dovrebbe esserne la fonte di disciplina). Si dimentica così che le risorse pubbliche non dovrebbero essere utilizzate per le preferenze individuali, ma solo per i bisogni: le preferenze individuali dovrebbero invece essere pagate di tasca propria, a meno che non garantiscano un valore sociale aggiunto.
Questo valore sociale esiste nel caso della famiglia fondata sul matrimonio, per effetto dell’assunzione di responsabilità pubblica che consegue a tale istituto. Eppure ai genitori sposati, a cui si vorrebbe chiedere di contribuire ai costi dei DiCo, non si riconoscono le spese che effettivamente sostengono per assolvere al dovere costituzionale (art. 20 della Costituzione) di educare e mantenere i figli. È un paradosso clamoroso!
Dati recenti stimano intorno a 140-170.000 euro la spesa che una famiglia sostiene per mantenere, istruire ed educare un figlio fino alla maggiore età. Si tratta cioè di una spesa che oscilla tra 7.700 e 9.400 euro all’anno. Il fisco italiano riconosce però una detrazione annua pari solo a 800 euro, che equivale a un abbattimento dell’imponibile di poco più di 3.000 euro per figlio a carico. In altre parole, il fisco italiano riconosce molto meno della metà della spesa effettivamente sostenuta e tassa (o meglio “tartassa”) i genitori sul resto, come se questi soldi (dagli 80 ai 90.000 euro) fossero rimasti nelle casse domestiche o fossero stati spesi per soddisfare esigenze voluttuarie, come acquistare un cavallo o un motoscafo di lusso, e quindi fiscalmente irrilevanti.
Si tratta di una palese violazione del principio di capacità contributiva dell’art. 53 della Costituzione, la cui formulazione venne voluta dai costituenti proprio per salvaguardare quella quota di reddito necessaria al mantenimento personale e familiare. La capacità contributiva, ovvero la capacità di concorrere alle spese pubbliche, inizia infatti solo dopo aver assolto a queste primarie esigenze della vita. Si tratta di un dato evidente che, ad esempio, da tempo ha dettato la linea della Corte costituzionale tedesca, grazie alla quale oggi in Germania si possono dedurre fino a 15.000 euro annui per ogni figlio a carico. Se la spesa effettivamente sostenuta per i figli è ampiamente riconosciuta dal fisco tedesco, quello italiano è invece ancora gravemente miope: non distingue tra soldi spesi al casinò o per comperare un cavallo e soldi spesi per i figli.
È utile precisare che queste affermazioni non riguardano solo i contribuenti ricchi, ma tutti: anche un operaio che pur fatica ad arrivare a fine mese è costretto a pagare imposte sul reddito come se i soldi che ha speso per mantenere, vestire, educare i figli li avesse ancora in tasca. Si tratta di un paradosso inaccettabile, cui si contrappongono le lucide affermazioni della Corte costituzionale tedesca: «al fisco è precluso attingere ai mezzi economici indispensabili al mantenimento dei figli nello stesso modo con cui attinge ai mezzi utilizzati per la soddisfazione di esigenze voluttuarie»; «il legislatore fiscale deve rispettare la decisione dei genitori di avere figli e non può obiettare loro l’evitabilità dei figli allo stesso modo con cui obietterebbe l’evitabilità di altri costi per la conduzione della vita».
Non si può prescindere da queste considerazioni per valutare la questione sulla costituzionalità dei DiCo: siccome questi ultimi avranno un costo tutt’altro che marginale, non è permesso al legislatore utilizzare risorse per forme di convivenza alternative a quelle familiari, quando è altamente inadempiente rispetto alla priorità che la Costituzione assegna alla famiglia fondata sul matrimonio.
A quanto già precisato, va peraltro aggiunto che la recente trasformazione delle deduzioni per i figli a carico in detrazioni, ha determinato l’aumento delle basi imponibili delle addizionali regionali. Quanto il Governo aveva dato in più questo anno alle famiglie è stato rimangiato dalle addizionali regionali sull’imposta sul reddito, che – in forza della legge statale – si calcolano su una base imponibile aumentata per effetto della trasformazione in detrazioni. Si è arrivati all’assurdo per cui un single paga la stessa addizionale regionale di un padre di famiglia con cinque figli a carico. È una palese violazione del principio di eguaglianza.
Il legislatore statale dovrebbe quindi intervenire prontamente per rimediare a tutta questa serie di incostituzionalità relative al trattamento fiscale della famiglia fondata sul matrimonio, la sola che sarebbe destinataria di quel trattamento di favore di cui parla l’art. 29 della Costituzione. Sarebbe tenuto a farlo ben prima di destinare nuove e cospicue risorse ad altre forme di convivenza.
Peraltro, in Italia la spesa sociale per la famiglia è meno della metà della media europea: 3,3% del Pil rispetto al 7,7%. Si tratta di una situazione grave che spinse Giovanni Paolo II, quando parlò al Parlamento italiano il 14 novembre 2002, a insistere sulla necessità di una «iniziativa politica che, mantenendo fermo il riconoscimento dei diritti della famiglia come società naturale fondata sul matrimonio, secondo il dettato della stessa Costituzione della Repubblica italiana (art. 29), renda socialmente ed economicamente meno onerose la generazione e l’educazione dei figli».
Converrebbe a tutti. Il nostro Paese si colloca, per tasso di natalità, al penultimo posto in Europa e al secondo posto nella classifica internazionale dei Paesi più esposti all’invecchiamento. La bassa natalità è un freno alla produttività e allo sviluppo, un gravame sulle spalle delle future generazioni, una condizione generatrice di diseconomie esterne. Se il tasso di natalità del nostro Paese, nell’arco dei prossimi dieci anni, ritornasse nella media europea, la struttura della popolazione ridiventerebbe più larga, con effetti positivi crescenti sul mercato del lavoro come sul sistema dell’assistenza e della previdenza.
Cfr. Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, Libro bianco sul welfare. Proposte per una società dinamica e solidale, Roma, Febbraio 2003.