L’Intergruppo per la sussidiarietà è stato l’unico serio esperimento bipartisan fatto negli ultimi anni, specialmente nel momento di fine legislatura quando le parti politiche erano divise, l’una contro l’altra. Quella esperienza deve essere riproposta quale luogo politico in cui ricercare le piccole-grandi intese dettate dal buon senso: riforme germinate dal basso, dalla società civile diffusa, alimentate da quegli interessi autenticamente collettivi di cui si è quasi persa traccia. Così Ferruccio De Bortoli, il primo direttore di un quotidiano a pubblicare – qualche mese fa sulle colonne de Il Sole 24 Ore – il testo integrale del “patto per lo sviluppo” firmato proprio dai parlamentari aderenti all’Intergruppo. Nel suo column di esordio sul Sole, poco più di un anno fa, ha lanciato un appello per la costruzione di «un nuovo spirito» contro ogni forma di «apatia civile», che faccia leva su competitività e trasparenza, ma anche su un corpo sociale che superi la semplice «somma degli interessi individuali».
In questo senso, il tentativo dell’Intergruppo di applicare in concreto il principio di sussidiarietà «significa provare a far dialogare in Parlamento maggioranza ed opposizione in modo diverso: senza rigidità verticali ma partendo dalla ricchezza della società civile, dalle sue risorse e dalle sue possibilità, dal suo costante dinamismo. La società – e non è un luogo comune – tende sempre ad essere più avanzata rispetto alla propria rappresentanza politica».
E in effetti, cosa è sussidiarietà se non è il modo migliore per responsabilizzare i privati e per creare un rapporto corretto con il pubblico? «È un antidoto al deficit di democrazia empirica evidenziatosi in Europa con la mancata approvazione in Olanda e Francia del referendum sulla costituzione», spiega De Bortoli. «L’Europa ha fatto quattro grandi riforme in poco più di un decennio: mercato unico, moneta unica, allargamento e costituzione peraltro incompiute. In questo contesto ritengo che il principio di sussidiarietà possa svolgere un ruolo importante in quanto oltre a sorreggere le comunità di privati e il volontariato, consente di capire che c’è bisogno di maggiore interazione tra i vari livelli di rappresentanza politica».
De Bortoli ha dedicato un editoriale sul Sole all’esigenza che il sistema-Italia investa sul capitale umano e sull’education, come momento forte di una più robusta cultura d’impresa nel Paese. Chi deve fare questi investimenti e come? «In ricerca e formazione il ruolo pubblico c’è e deve rimanere. Dalla contrapposizione sterile sul tema del rapporto tra pubblico e privato nella scuola e nell’università, è necessario passare alla dicotomia buono/cattivo, utile/inutile, investimento a lungo termine/a breve termine. E cioè valutare negli investimenti per l’educazione la loro bontà in termini di resa sociale e di capacità a formare le nuove generazioni. Il rapporto tra pubblico e privato non deve essere di divisione ideologia. Ad esempio, nella Fondazione per la sussidiarietà, vi sono persone che pur avendo origine politiche diverse sanno bene che rispetto alla società, al suo sistema formativo, al rapporto tra sistema formativo ed imprese, l’aspetto più importante da salvaguardare è la bontà dei contenuti proposti e, insieme, il rispetto delle diverse opinioni».
Passiamo al cinque per mille. Cosa ne pensa? «Una buona idea che, come l’otto per mille, si deve nella scorsa legislatura a Tremonti. Aiuta a capire che una parte di quanto paghiamo come imposta non finisce nel grande vulcano della spesa pubblica – dove tutto è sempre indistinto – ma in un rivolo produttivo che rivaluta l’aspetto morale della tassazione. Il cinque per mille, come l’otto per mille, danno una maggiore libertà di scelta a colui che paga le imposte facendo lui comprendere che la società è fatta anche di restituzioni».
Quali sono le priorità forti per i primi mesi di governo? «Capire come stiano veramente i conti del Paese. Agire per dare una spinta alla competitività delle imprese che non significa privilegiare le imprese rispetto ai lavoratori ma significa dare una spinta in termini di competitività alle economie e alle imprese che danno occupazione e reddito. E in terzo luogo avere il coraggio di liberalizzare il più possibile».
Come legge l’esito delle elezioni politiche al Nord? «Il centro sinistra non è stato in grado durante la campagna elettorale di dimostrare agli elettori del nord – Emilia Romagna esclusa – che la sua scelta per la modernità è completa e irreversibile. Gli elettori del nord non hanno ben compreso la scelta sulla tassazione e sulle infrastrutture, e sostanzialmente hanno respinto o comunque non compreso la proposta di politica economica del centro sinistra. L’esito del voto al Nord dovrebbe suonare come un campanello d’allarme per il centro sinistra, dovrebbe essere il nocciolo da cui far partire un vero partito democratico. Vedo però da alcune analisi che, come è accaduto anche in passato, il centro sinistra tende a mettere la testa dentro la sabbia e a non accorgersi di questo segnale. A Milano, a Torino e altrove, lavorano sul territorio non sono solo i grandi gruppi, non solo l’establishment economico e finanziario, ma anche la piccola e media impresa e cioè il 98% delle imprese italiane, vero cuore pulsante della nostra economia. Ogni giorno devono fare i conti con la concorrenza internazionale, con la perdita di produttività del paese, con la mancanza di infrastrutture. È a questa realtà che il centro sinistra deve iniziare a guardare».



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