La questione dei DiCo rappresenta una svolta epocale, in quanto si inserisce in uno scontro radicale fra due antropologie. Nella Evangelium vitae, Giovanni Paolo II parlava di una «cultura della morte» contrapposta alla cultura della vita.
Il contesto vero dei DiCo è appunto l’estremo esprimersi, individuale e sociale, di una cultura della morte.
Un individualismo razionalistico, illuministico e totalitario sostiene una esperienza individuale tesa a ottenere il massimo di potere nei confronti della realtà. L’individuo conosce la realtà e la manipola tecno-scientificamente, in modo da ottenerne il massimo benessere. L’Occidente ha visto per secoli questo individuo che conosce e organizza gli oggetti, e li manipola attraverso la tecno-scienza: tutti gli oggetti, anche gli altri uomini che sono considerati, più che uomini, oggetti umani.
In questo contesto è addirittura difficile parlare di «rapporti» che nascano da una autentica solidarietà umana e formino così una societas: dalla famiglia, società naturale, alle più ampie, articolate e sinergiche espressioni sociali.
La società attuale ha alla sua base un individuo che, cercando di attuare tutti i suoi desideri, cerca di procurare per sé il massimo di benessere, con il minor rischio possibile e, quindi, con la minore responsabilità. Le convivenze, di cui si cerca una consistente garanzia sul piano dei cosiddetti diritti individuali (espressione questa estremamente significativa), durano evidentemente fino a tanto che dura il benessere. Il benessere è un valore indipendentemente dal contesto che lo produce: ecco perché sullo sfondo dei DiCo italiani sta la sostanziale equivalenza fra omo sessualità ed etero sessualità.
Per addentrarsi criticamente nella cultura della vita occorre riaprire quella stagione di intelligenza allargata che è stato uno dei nodi fondamentali dell’insegnamento di Mons. Giussani. E occorre riprendere quella sua densa definizione di cultura come «coscienza critica e sistematica dell’esperienza umana» che ha trovato una singolare conferma e svolgimento nel grande insegnamento di Giovanni Paolo II.
La cultura è animata dall’inesorabile tensione verso la verità, cioè la risposta alle grandi esigenze che costituiscono la struttura e il dinamismo fondamentale del cuore umano.
Solo una persona in movimento verso il Mistero scopre attorno a sé una solidarietà innegabile e inscavalcabile. La persona non mai è un individuo, perché strutturalmente è «alle prese con Dio»; «l’uomo supera infinitamente l’uomo», come ha detto Pascal. Ma l’uomo è anche sempre alle prese con gli altri, con quelli che Levinas ha definito «uno come me, accanto a me nel grande Mistero delle cose».
Così dal senso del Mistero e da questa sorgiva esperienza di compagnia nasce la società, luogo di memoria del Mistero (valga per tutto l’esemplarità della famiglia), e luogo di condivisione e di corresponsabilità nella percezione e nel tentativo di affrontare e di risolvere i problemi grandi e piccoli della vita.
Così la famiglia, impegno responsabile di fronte al Mistero e nell’accettazione di quella strutturale “differenza” che la natura ha stabilito («maschio e femmina li creò»), diventa il fulcro di ogni esperienza di cultura e di socialità. L’esperienza della fede cattolica è il massimo di chiarezza rivelativa di questa grande verità naturale e, insieme, l’offerta gratuita di una energia che consenta di vivere il cammino della storia, cioè della moralità.
Pertanto la questione ecclesiale dei DiCo impegna la Chiesa ad opporre alla cultura della morte la cultura della vita, ma soprattutto a porsi come luogo dove questa cultura della vita diventa, nell’educazione, esperienza vissuta e comunicabile a tutti. Non è un caso che la famiglia, nata nel sacramento ecclesiale sia divenuta, laicamente, la forma della società.



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