I fatti di via Sarpi: una verità non univoca
La protesta dei cinesi di Milano dell’11 aprile apre una nuova fase nei rapporti già complicati dell’Italia con la Cina.
Le tesi generalmente esposte nella discussione in Italia toccano quattro aspetti principali. Il primo riguarda la mafia cinese: le triadi e i loro capi, le cosiddette Teste di Dragone, sono sospettati di avere una forte presenza tra i cinesi immigrati, facendo quindi pensare che le proteste di Milano siano state organizzate dalla mafia. C’è poi il problema dell’evasione fiscale: i negozi cinesi si fanno pagare in contanti, mandando forse in Cina i soldi che dovrebbero andare al fisco italiano; schiavizzano i loro compatrioti, obbligandoli a tempi di lavoro infiniti, senza garanzie di sicurezza sociale, violando la legge e facendo concorrenza sleale alle attività degli italiani. Un altro punto è la confusione portata in via Paolo Sarpi dalla presenza di oltre cento esercizi cinesi di commercio all’ingrosso. Ciò significa un continuo via vai di migliaia di cinesi che si comportano con mala grazia, creando irritazione e, più concretamente, togliendo valore agli immobili di quella zona. Infine, sembra aleggiare la presenza del governo cinese, che da Pechino fa da regista a tutta questa attività e si intromette in questioni di ordine pubblico italiane.
Questi punti, se coprono tutte le preoccupazioni italiane, non affrontano i motivi che hanno spinto i cinesi a protestare e che sarebbe comunque bene cercar di capire. È difficile pensare che gli oltre 100.000 cinesi in Italia, o i 13.000 di Milano, siano tutti mafiosi, evasori fiscali e spie del governo cinese, ma se così fosse, l’Italia dovrebbe arrestarli o espellerli tutti. L’ipotesi più realistica è invece che, se la mafia cinese agisse a Milano, non tutti i cinesi siano mafiosi, tanto più che ogni mafia ha bisogno di un numero sufficiente di vittime da taglieggiare, innanzitutto tra i propri compatrioti. Si può obiettare che tali vittime cinesi forse sono consenzienti. Sarebbe importante, però, capire le ragioni di questo eventuale consenso, che possono essere molto complesse, basate non sul semplice terrore che incutono i capi mafia. Di certo, un atteggiamento ostile delle autorità italiane verso tutta la comunità cinese finirebbe per spingere sempre più cinesi fra le braccia degli eventuali mafiosi. Questa dovrebbe essere una lezione risaputa per l’Italia: in Sicilia c’è la mafia, ma non tutti i siciliani sono mafiosi, e le vittorie dello Stato sulla mafia sono state proprio basate sulla possibilità di separare i mafiosi dai siciliani onesti. Si dovrebbe, perciò, tentare di recuperare alla legalità il maggior numero possibile di cinesi, isolando gli eventuali criminali. Comunque, la protesta di via Paolo Sarpi non è stata scatenata da una retata antimafia delle autorità.
Per quanto riguarda l’evasione fiscale e lo sfruttamento del lavoro, occorrono più controlli per costringere i cinesi a pagare le tasse e a far lavorare il personale secondo le leggi italiane. Qui sorge però una domanda: perché queste regole non sono mai state fatte applicare prima? Si mandi pure la finanza a fare controlli, ma su tutti gli immigrati, non solo sui cinesi di via Paolo Sarpi. Ma se è una questione fiscale, i cinesi sono nella stessa barca di tanti italiani, non essendo certo una loro esclusiva peculiarità il cercare di non pagare le tasse.
Il problema reale
Si arriva così alla questione vera: in via Sarpi ci sono troppi negozi cinesi, in particolare grossisti. Costoro però non hanno aperto i battenti di nascosto, hanno chiesto e ottenuto regolari licenze di esercizio, hanno comprato o affittato i locali, hanno compiuto nella zona investimenti che vogliono giustamente tutelare.
Occorre poi sottolineare che questi negozianti sono imprenditori italiani a tutti gli effetti, o perché cittadini italiani o perché, comunque, le attività che svolgono sono italiane, registrate in Italia. Questi negozi non sono filiali di imprese cinesi, consolidano i bilanci nel nostro Paese, qualunque sia la nazionalità del proprietario.
Si potrebbe affermare che quella di Milano è stata una protesta di italiani contro italiani: è chiaro infatti che ci sono interessi di alcuni italiani contro quelli di via Sarpi, al di là delle ragioni “ufficiali”. Sembrerebbero esserci tre ordini di lamentele: quelle degli abitanti di via Sarpi che si sentono “invasi” dalla nuova, crescente presenza di cinesi; quella degli altri negozianti che accusano la nuova concorrenza dei cinesi; quella degli immobiliaristi che vedono in questa zona centrale di Milano, dove i prezzi sono bassi a causa appunto della presenza cinese, un’opportunità di rivalutazione degli immobili se i cinesi se ne andassero.
In questo contesto ha avuto luogo il crescendo che ha portato alla protesta. A febbraio sono calate su via Sarpi squadre di vigili che hanno inflitto moltissime multe, considerate dai cinesi ingiuste e vessatorie. Il messaggio che è arrivato è stato: “Dovete lasciare via Sarpi, smettere le vostre attività”. Da qui le pressioni sul console Zhang Limin perché intervenisse presso il Comune di Milano. Il console era imbarazzato perché Pechino non vuole che le comunità cinesi all’estero siano percepite come un quinta colonna della Cina; si esime, quindi dal rappresentare le esigenze degli emigrati cinesi, tanto più che in questo caso non si trattava di cittadini cinesi, ma di imprese italiane. Comunque, il console si è recato in Comune, ma senza riuscire a instaurare un dialogo sulle richieste dei cinesi. Dopo questo tentativo di colloquio fallito, è scoppiato l’incidente della multa, per parcheggio in seconda fila, alla madre con il bambino in braccio, con le conseguenti accese proteste.
I fatti di via Sarpi interpretati da Pechino
Il giorno dopo la rivolta di Milano, i commenti ufficiali a Pechino erano cauti, ma le foto e il tono della prosa erano chiari: i cinesi della Cina parteggiavano per i loro connazionali in Italia. “La polizia italiana picchia una donna e scatena una protesta” titolava l’agenzia Notizie cinesi. Le foto mostravano agenti ingabbiati dietro anonimi caschi antirivolta, che brandivano i manganelli contro inermi e indifesi cinesi schiacciati contro un muro o che alzavano i pugni dietro uno striscione rosso di protesta.
Pur senza commenti, gli articoli non lasciavano dubbi ai lettori: la polizia municipale di Milano aveva acceso la miccia della protesta picchiando una donna, che per di più aveva in braccio un bambino di “due anni e tre mesi”. Non c’era quindi bisogno di spiegare chi avesse torto o ragione, era evidente. Eroe della giornata, il console cinese di Milano, che cercava di placare gli animi dei più facinorosi tra i suoi connazionali e andava a visitare in ospedale i feriti negli scontri con le forze dell’ordine.
La politica ufficiale di Pechino è sempre stata quella di tenersi rigorosamente al di fuori delle questioni di politica interna altrui, anche per evitare di offrire il destro a interferenze straniere nella propria politica. Inoltre le questioni degli emigrati cinesi sono per Pechino particolarmente delicate. Non è un mistero che molti immigrati cinesi in Italia e in Europa non abbiano i permessi di soggiorno in ordine e che alcuni conducano attività ai limiti della legalità, evadendo le tasse o non rispettando la legislazione sul lavoro.
Inoltre, in passato, gli emigrati cinesi hanno suscitato invidie e odi delle popolazioni locali, perché facevano fortuna più e meglio dei locali. Oppure, dagli anni Quaranta in poi, i cinesi si arruolavano tra i comunisti del Paese di emigrazione e si muovevano attivamente in organizzazioni insurrezionali, cosa non gradita ai vari governi filoamericani dell’Asia in tempi di guerra fredda, con la Cina fermamente tra i ranghi dei nemici.
Questo sentirsi particolarmente discriminati sembra avere giocato anche nella reazione dei cinesi di Milano. Da Pechino dicono con molta discrezione che tutta la vicenda sembra avere i contorni di una trappola. “Le autorità di Milano non hanno dato preavvisi congrui per tornare alla legalità – spiega un funzionario cinese che segue le questioni degli emigrati -. Non hanno parlato alla comunità indicando scadenze ragionevoli, per esempio dicendo: ‘Fra sei mesi dovete mettere tutto in ordine, perché poi mandiamo i vigili a controllare tutte le cantine, mettiamo le telecamere a sorvegliare ogni movimento'”. Eppure, tutte queste violazioni erano già note in passato, senza che alcuno fosse intervenuto.
Il sospetto aleggia persino nella prudente nota del ministero degli Esteri cinese, in cui si invitano le autorità italiane a una “gestione equanime” di quello che viene definito il “problema degli scontri tra cinesi e polizia”. Il portavoce del ministero sottolineava: “Speriamo che la parte italiana consideri le ragionevoli richieste dei cinesi e protegga effettivamente i loro giusti diritti”. Pur nella attenta misura delle parole, traspare freddezza e imbarazzo.
Una possibile morale
Da tutto quanto esposto sorgono alcune domande, in termini di democrazia e di autorità.
Altrove, commercianti assillati dai vigili hanno assediato i comuni e si sono trovati dei compromessi, anche perché i commercianti rappresentano voti e introiti fiscali. Nel caso delle imprese italiane di proprietà cinese questo non è avvenuto, quasi fossero imprese di serie B. In termini di autorità, di fronte alle reazioni scatenate dall’intervento dei vigili, d’ora in poi diventerà difficile continuare anche i normali controlli, che potrebbero essere visti come “vessatori”. L’esercizio dell’autorità sui cinesi sarà in futuro più debole e soggetto a più sospetti.
Ancora: si è incrinato un rapporto di simpatia tra Italia e Cina. La Cina ha messo la sordina su questi episodi che rischiano di gonfiare pericolosi sentimenti nazionalisti nel Paese e di attizzare il fuoco della “minaccia cinese” che si agita per il mondo. I telegiornali e i grandi mezzi di informazione hanno taciuto la notizia, ma la storia si è diffusa su internet ed è stata un secchio di acqua ghiacciata sugli entusiasmi, mai peraltro caldissimi, di venire a investire in Italia.
Non solo. I cinesi in Italia, pur vittime della loro mafia, saranno portati comunque ad aver più fiducia nei “loro” che nella polizia milanese e questa omertà-solidarietà coprirà meglio anche evasioni fiscali e altro. C’è però anche un problema di educazione dei cinesi immigrati. Oltre alle leggi, ci sono costumi locali che vanno rispettati e sporcizia, sputi per strada, ostracizzati a Pechino per le olimpiadi, non devono avere cittadinanza a Milano.
Infine, occorre capire che si deve gestire una società multietnica, con costumi diversi che arricchiscono l’Italia, Paese da millenni crocevia di razze. Ci sono molti segni della mancanza di integrazione dei cinesi nella società italiana: non sono cattolici e nemmeno buddisti, molti sono evangelici o testimoni di Geova, si sono cioè convertiti, segno di una volontà di cambiare e di adeguarsi all’altro. Ma l’altro non è il modello dominante, cattolico, in Italia. Se i cinesi vogliono cambiare, ma non si cambiano in “italiani”, vuol dire che forse c’è un problema anche da parte dell’Italia.



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