Immigrazione: un fenomeno variegato
“Immigrazione” non è un sostantivo singolare, ma plurale. In un’unica parola, infatti, si ritrovano associate situazioni diversissime tra loro. È per questo che parlare semplicemente di immigrazione non basta più: perché a farlo si corre il rischio di produrre generalizzazioni che non aiutano a capire con che tipo di fenomeno abbiamo a che fare, quali siano le sue proporzioni, come si manifesti, che tipo di politiche richieda.
La prima grande distinzione va fatta, ovviamente, tra immigrazione regolare e clandestina. Anche all’interno di quella regolare bisogna tuttavia capire che ci sono gli immigrati di seconda generazione, i neoimmigrati, le persone pienamente integrate all’interno della nostra comunità, che hanno magari avviato un’attività imprenditoriale, così come molti altri che invece vivono o rischiano di finire in situazioni di emarginazione. Se è chiaro, quindi, che il fenomeno immigrazione va affrontato nella sua interezza, con politiche complementari, è altrettanto evidente che non basta un’unica formula, ma serve invece una ricetta fatta di più ingredienti. Questo perché l’immigrazione è uno di quei grandi temi – forse il tema centrale per la politica e la società di oggi – su cui non possiamo più permetterci di fare delle semplificazioni. È necessario smettere, pertanto, di parlare di immigrazione come se si trattasse di un fenomeno solo, piuttosto che di un insieme di molte cose diverse, se vogliamo che tale termine non diventi una semplificazione con la quale si indicano unitamente i ricongiungimenti familiari e la costruzione delle moschee in Italia, le rimesse e l’insegnamento dell’italiano agli stranieri, le ragazze dei Balcani attratte dalle pubblicità della tv italiana e gli informatici indiani. Questa mi pare la premessa indispensabile da fare quando si parla di immigrati. 
I risvolti positivi dell’immigrazione
Una parte – forse la più significativa – di questo fenomeno eterogeneo riguarda il valore economico dell’immigrazione in Italia. Questa parte è meno pubblicizzata, meno raccontata dai media, e per questo si tende a credere che non esista. Si pensa istintivamente che l’immigrazione sia solo la storia dei disperati che sbarcano sulle nostre coste, mentre invece è spesso – sempre più spesso, per fortuna – anche una storia di successi, sul piano individuale come su quello sociale. Cominciare a parlare di immigrazione come fenomeno plurale significa proprio far spazio anche a quest’altra immigrazione, provare a portarla alla ribalta, per evitare che a fare notizia – e quindi a restare impressa nella testa degli italiani – sia solo l’immagine di un’immigrazione che è disperazione o violenza razziale, piuttosto che un dato di fondo che ci parla di una partecipazione crescente degli immigrati alla vita economica, sociale e culturale del Paese.
Di questo nuovo discorso sulla “buona immigrazione” abbiamo bisogno anche per uscire da quel dibattito polarizzato dal quale non emerge la realtà delle cose. Un dibattito piuttosto sterile con da una parte espressioni al limite del razzismo e della xenofobia e, dall’altra un’apertura che in realtà è finta, perché fatta di paternalismo, elemosina e pietismo. Un’apertura che non è vera, perché produce forse incontro, ma non confronto.
Attraverso la distinzione all’interno del fenomeno immigrazione e attraverso l’accento sulla buona immigrazione, credo che possiamo cominciare a confrontarci costruttivamente con i nostri immigrati, per capire come fare assieme dell’Italia un Paese più forte, più dinamico e più ricco. La loro esperienza umana è un capitale che va messo a frutto, che può insegnarci molto. La chiusura xenofoba fa solo danni e non aiuta nessuno, ma aiuta poco anche un certo atteggiamento paternalistico. Ritengo perciò che, tra questi due estremi, ci sia bisogno di un vero e proprio cambio di registro. Per renderlo possibile, si potrebbe cominciare da alcuni dati che mostrano, per esempio, come, grazie agli immigrati che sono parte della nostra comunità, l’Italia sia un Paese più vivo, vivace, energico e ricco, non solo culturalmente ma anche economicamente: il contributo dato dagli stranieri al Pil, infatti, ammonta al 6,5%.
Anche altri dati sono di grande interesse. In un’Italia che invecchia giorno dopo giorno, un immigrato su due ha un’età compresa tra i 18 e i 39 anni, e l’età media degli immigrati residenti regolari è di poco superiore ai trent’anni []: non stiamo parlando di qualche centinaio di stranieri, ma di una popolazione di quasi tre milioni di immigrati []. Ciò vuol dire che una porzione significativa della parte più giovane e produttiva del Paese è costituita da immigrati; quindi il loro contributo è, e sarà, sempre più decisivo non solo per la nostra crescita, ma anche per il dinamismo della nostra economia.
C’è un altro dato, inoltre, che dà la misura del ruolo che gli immigrati già oggi giocano in Italia, a vantaggio degli italiani. Se consideriamo il 2006, per ogni mese dell’anno la popolazione attiva straniera ha versato all’Inps mezzo miliardo di euro, cioè sei miliardi l’anno []. Ciò significa che gli immigrati sono uno dei pilastri fondamentali su cui si regge il nostro sistema pensionistico nazionale. 
Non un costo, ma una ricchezza
Bastano solo questi tre dati, relativi alla percentuale del Pil, all’età media e al contributo all’Inps, per rendersi conto che sull’immigrazione è necessario cominciare a fare un ragionamento più articolato, di sostanza, che non si interessi solo al singolo caso, ma anche e soprattutto al fenomeno nel suo insieme. Solo a questo livello può infatti emergere in tutta la sua interezza quella considerazione di fondo per cui gli immigrati per l’Italia non sono un costo, ma una ricchezza [].
Una ricchezza che cresce in proporzione alla nostra capacità di integrare pienamente gli immigrati all’interno della maglia sociale e del tessuto produttivo del Paese. È significativo, infatti, che il reddito medio familiare di 1.179 euro salga a 1.673 per la categoria dei cosiddetti immigrati “integrati”, ovvero quelli da più tempo residenti in Italia e già inseriti nella società.
Che i residenti stranieri siano una ricchezza lo dimostra anche la dimensione puramente imprenditoriale del fenomeno immigrazione. In Italia ci sono 131.000 titolari d’impresa con cittadinanza estera – primi fra tutti, 24.000 imprenditori marocchini (il 18,4% del totale) – che svolgono la loro attività e contribuiscono a dare lavoro anche a molti italiani [].
Otto Bitjoka, inoltre, ha parlato di «un’opportunità non ripetibile», riferendosi a nuove Piccole e medie imprese aperte da stranieri, spesso giovani, tendenzialmente più propensi al rischio (anche in ragione della loro esperienza migratoria) e in grado di diventare un vettore importante per l’internazionalizzazione low cost delle Pmi italiane [].
Gli stranieri possono quindi dare un contributo importante anche in termini di internazionalizzazione delle imprese e noi dobbiamo cominciare non soltanto a dirlo, ma anche ad adottare politiche adeguate per muoverci in questa direzione. Altrimenti, ancora un volta, rischiamo di perdere il treno. Rischiamo di accorgerci dove va il mondo quando gli altri – in primis i nostri maggiori partner europei – si saranno già mossi da tempo.
A questo riguardo, un dato mi sembra particolarmente allarmante: gli stranieri nelle università italiane sono il 2-3% del totale. In Francia sono l’11%, nel Regno Unito poco meno del 15%. Si può certo affermare che il passato da grandi potenze coloniali e la diffusione a livello planetario del francese e dell’inglese aiutino Parigi e Londra in questa attrazione internazionale di cervelli. Ma allora come mai anche la Germania è al 12,5%? Se prendiamo i dati in valore assoluto, il confronto è ancora più sconfortante. Secondo l’Ocse, nel 2003 c’erano circa 220.000 studenti stranieri in Francia, 240.000 in Germania, 255.000 nel Regno Unito. In Italia, invece, appena 36.000, un numero ridicolo rispetto non solo ai tre maggiori partner UE, ma anche in confronto ai 53.000 della Spagna. E pensare che il “mercato” sarebbe vastissimo: solo nel 2004 ci sono stati 2,7 milioni di studenti iscritti in un’università dell’area Ocse al di fuori del loro Paese d’origine . Io credo che la via obbligata per una vera integrazione, per una vera internazionalizzazione del Paese, passi anche per un’adeguata soluzione a questo dato imbarazzante.
Se ho parlato di contributo non solo alla crescita economica ma anche al dinamismo della nostra economia, è perché esiste un dato di percezione che mi sembra estremamente interessante: da una ricerca recente risulta, infatti, che il 70% degli immigrati intervistati ritiene che nei prossimi mesi il proprio reddito aumenterà. Ossia, nonostante tutte le difficoltà, gli immigrati sembrano incondizionatamente ottimisti.
È essenziale che oggi si cominci a parlare dell’immigrazione che produce e partecipa alla crescita economica del Paese: il rischio serio che corriamo, altrimenti, è quello di restare soffocati nella nostra immagine paternalista, di restare immobili, di non accorgerci di come cambi la nostra società e di quello che potremmo fare per migliorarla, per rafforzare la dimensione positiva dell’immigrazione, che è quella maggioritaria.
È importante quindi che cominciamo a spostare l’attenzione dall’emergenza all’opportunità. Questo vero e proprio cambio di paradigma ci serve anche per far sì che gli immigrati non continuino a essere occupati solo in impieghi cui gli italiani non ambiscono più – i cosiddetti lavori delle cinque “p” (precari, pesanti, pericolosi, poco pagati, penalizzati socialmente) – e che si riduca lo scarto medio tra qualifiche/competenze dell’immigrato e tipo di lavoro in cui è impiegato in Italia. Occorre, cioè, porre fine allo spreco di risorse che viene compiuto quando, troppo spesso ancora, vengono mandati laureati a raccogliere i pomodori, a fare le colf, a imbiancare le pareti. Proprio quando, invece, si avrebbero a disposizione centinaia di giovani in grado “di immettere nella società italiana tratti rilevanti della cultura della globalizzazione” . Mi pare questa la strada da percorrere, l’unica che vada nella direzione di una maggiore integrazione culturale e, contemporaneamente, di un più alto valore aggiunto economico.
Una nuova cittadinanza
Tutto ciò andrebbe inquadrato nel contesto di una nuova forma di cittadinanza, da associare alla certezza di diritti e doveri uguali per tutti, che rifletta non tanto una discendenza di sangue o la nascita in un luogo, ma la decisione volontaria di far parte pienamente di una comunità. Perché è questo che conta: a quale comunità sentiamo di appartenere, allo sviluppo di quale comunità vogliamo dare il nostro contributo.
In Italia, oggi, ci sono migliaia di immigrati che hanno deciso di lavorare, di fare impresa, di mettere su famiglia, di pagare le tasse. Per queste persone che hanno fatto genuinamente e con convinzione la scelta della nostra penisola e che hanno dimostrato il loro interesse e il loro amore per il nostro Paese, così come la loro volontà e capacità di rispettare le leggi, l’Italia dovrebbe diventare, da una terra promessa, una promessa mantenuta. Dovrebbe diventarlo per loro e ancor più per i loro figli.
È in questa direzione, del resto, che si sta muovendo il governo. Con il Ddl Amato-Ferrero, approvato dal Consiglio dei ministri il 24 aprile, vogliamo cominciare a trattare l’immigrazione non più come un’emergenza, ma come un elemento ordinario della società moderna. Vogliamo valorizzare gli immigrati e le loro competenze, favorirne la piena integrazione, rendendo meno precaria la loro posizione e riducendo quindi i rischi di uno “scivolamento” nella clandestinità. Vogliamo, infine – e stiamo provando a farlo con altri provvedimenti del governo – rendere la cittadinanza un concetto più inclusivo, aperto e attento, per i figli degli stranieri, sia al luogo di nascita sia a quella fase della vita in cui si formano la personalità e la cultura, in cui si diventa, cioè, parte di una comunità piuttosto che di un’altra.
Il tema della cittadinanza è centrale ed è la vera sfida che abbiamo davanti. È difficile pensare che in un mondo tanto globale, che corre tanto in fretta, in cui cambiano i dati dell’economia, i costumi della società e i modi della politica, possiamo ancora utilizzare – senza innovarle – categorie e concetti elaborati decenni fa.
Dobbiamo toglierci di dosso la paura di sperimentare, di inventare nuove formule, di cercare di migliorare noi stessi e la qualità della nostra convivenza civile, di essere sempre più, italiani e immigrati insieme, responsabili del futuro del nostro Paese. Ci servono una nuova cittadinanza e una nuova responsabilità per non correre un rischio serio, quello che potremmo chiamare il “rischio dei ghetti”.
Una comunità non è la somma di piccoli gruppi segregati tra di loro. Non fa bene a nessuno lasciare che si sviluppino in Italia «sacche di immigrati» isolate dal resto della società, mal connesse col resto del tessuto produttivo e sociale. L’integrazione deve essere fondata sull’individuo e non sulle piccole collettività isolate.
Non dimentichiamoci infine che, nel corso dei secoli, i Paesi che hanno raggiunto un alto grado di civilizzazione e progresso sono stati proprio quelli che più hanno sostenuto le aperture verso l’esterno, le esplorazioni, gli scambi commerciali, la curiosità intellettuale nei confronti del diverso.
Non dimentichiamocene oggi, nell’era della globalizzazione, che dà a noi, e a nessun altro, la possibilità e la responsabilità di decidere se fare di ogni fenomeno nuovo una minaccia o un’opportunità.



 Cfr. Nota informativa Istat del 30/04/2007. I dati si riferiscono al 1° gennaio 2006.
Gli stranieri regolarmente residenti in Italia al 1° gennaio 2006 erano 2.670.000.
O. Bitjoka, M. Gersony, Ci siamo. Il futuro dell’immigrazione in Italia, Sperling & Kupfer, Milano 2007, p. 10.
Caritas/Migrantes, Immigrazione. Dossier Statistico 2006. XVI Rapporto sull’immigrazione, Centro studi e ricerche IDOS, Roma 2006, p. 157.
Ibid., p. 300.
O. Bitjoka, M. Gersony, Ci siamo. Il futuro dell’immigrazione in Italia, cit., p. 279.

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