Perché un piccolo Paese, situato in un’area geografica senza apparente valore, senza meraviglie naturali, senza grandi risorse, è, a tutti gli effetti, così determinante per la storia del mondo, la storia di tutti noi?
Forse ognuno di noi si è posto, almeno una volta, questo interrogativo. Israele-Palestina non è solo un Paese che confina con l’Egitto, il Libano, la Siria, la Giordania, e si affaccia per lunga estensione sul mar Mediterraneo. È, sopra ogni altra cosa, la Terra Santa, crocevia di popoli, religioni, culture. Paese di scorribande furiose di popoli antichi, di interesse politico-militare per troppe potenze attuali.
Essere Terra Santa – per antica elezione, perché terra della nostra redenzione, perché sede primaria delle tre grandi religioni monoteistiche – è quello che fa di questo Paese un microcosmo che è immagine e proiezione, nel bene e nel male, della situazione mondiale. Terra di tutte le contraddizioni umane, trionfo paradossale e incredibile – scandaloso – di violenze, dominazioni, integralismi, ma pur sempre terra di Dio più di qualunque altra.
Terra dove la Custodia di Terra Santa opera da quasi ottocento anni. Dire Custodia è dire francescani, l’Ordine dei Frati minori, fondato da san Francesco: un ordine religioso missionario per i quali questa Provincia è considerata la “perla delle missioni”.
Come cristiani, come francescani, dobbiamo leggere la realtà di questa terra con gli occhi della fede, alla ricerca del filo sottile della storia della salvezza, nell’impegno costruttivo, appassionato e ostinato della pace attraverso la scelta della nonviolenza.
Ci conferma in questa prospettiva e in questo doveroso impegno il nostro Serafico Padre, alter Christus, che di Cristo ci invita a leggere e attuare il Vangelo sine glossa.
Giacomo di Vitry, vescovo di San Giovanni d’Acri e contemporaneo di Francesco d’Assisi, ci ha lasciato la propria testimonianza scrivendo: "noi abbiamo potuto vedere colui che è il primo fondatore e il maestro di questo Ordine (dei Frati minori), al quale obbediscono tutti gli altri come a loro superiore generale: un uomo semplice e illetterato, ma caro a Dio e agli uomini, di nome frate Francino (Francesco). Egli era ripieno di tale accesso di amore e di fervore di spirito che, venuto nell’esercito cristiano, accampato davanti a Damietta in terra d’Egitto, volle recarsi intrepido e munito solo dello scudo della fede nell’accampamento del Sultano d’Egitto. Ai Saraceni che l’avevano fatto prigioniero lungo il tragitto, egli ripeteva: ‘Sono cristiano; conducetemi davanti al vostro signore’. Quando gli fu portato davanti, osservando l’aspetto di quell’uomo di Dio, la bestia crudele si sentì mutata in uomo mansueto e per parecchi giorni l’ascoltò con molta attenzione, mentre predicava Cristo davanti a lui e ai suoi. Poi preso dal timore che qualcuno dei suoi si lasciasse convertire al Signore dall’efficacia delle sue parole, e passasse all’esercito cristiano, lo fece ricondurre con onore e protezione nel nostro campo. E mentre lo congedava, gli raccomandò: ‘Prega per me, perché Dio si degni mostrarmi quale legge e fede gli è più gradita’".
Quasi due secoli di guerre tra cristiani e musulmani per il possesso della Terra Santa si arenano davanti al gesto profetico di Francesco, che inaugura un modo nuovo di confrontarsi e convivere con i musulmani sulle sponde del Mediterraneo. Un gesto rivoluzionario che affonda le proprie radici nel mandato di Cristo: «Andate, e predicate il Vangelo a tutte le creature» e che diventa simbolo di ogni possibile dialogo con le genti, le fedi e le culture più diverse.
Le fonti francescane posteriori sono unanimi nel far seguire all’incontro con il sultano Malik al-Kamil un pellegrinaggio di Francesco ai Luoghi Santi: «il sultano […] lo invitò con insistenza a prolungare la sua permanenza nella sua terra e diede ordine che lui e tutti i suoi frati potessero liberamente recarsi al Sepolcro di Cristo, senza pagare nessun tributo». Sempre secondo tali fonti, chiaramente di parte ma il cui spirito è ancora valida guida per la vita dei Frati minori in Terra Santa, Angelo Clareno scrisse: «quando san Francesco partì per le regioni d’oltremare per visitare i Luoghi Santi, predicare la fede di Cristo agli infedeli e guadagnarsi la corona del martirio […] fatto visita al Sepolcro di Cristo, tornò prestamente nella terra dei cristiani».
Era il 1221 quando Francesco, nella Regola non bollata, scrivendo di «coloro che vanno tra i saraceni e altri infedeli» raccomandava ai suoi frati "che non facciano liti o dispute, ma siano soggetti a ogni creatura umana per amore di Dio e confessino di essere cristiani". Il XII capitolo della Regola non bollata termina con una lunga serie di citazioni evangeliche che iniziano con: "beati quelli che sono perseguitati a causa della giustizia" e che potrebbero costituire una sorta di magna charta della nonviolenza.
Da quel momento inizia il percorso della presenza francescana in Terra Santa e insieme vi si rinnova la storia della presenza delle comunità cristiane locali.
Non sorprende, quindi, che nei documenti che ricordano la costruzione di conventi e oratori, le battaglie e le sconfitte crociate, le vittorie musulmane e le riconquiste della Terra Santa, resti la traccia di rapporti amichevoli intercorsi tra le autorità musulmane e i Frati minori. Nonostante tutto e a dispetto di battaglie e scontri di civiltà, resta saldo il filo del dialogo, segno di una convivenza rispettosa, di un diverso modo di confronto tra fedi e culture.
Nei numerosi firmani (documenti storici) che raccontano le disposizioni legislative e i rapporti tra autorità e sudditi di vario genere, emerge costantemente un modo originale di rapportarsi tra persone di religione, civiltà e cultura diverse, che trova sempre una possibilità di rispetto, di convivenza e di garanzia delle particolari esigenze umane e spirituali di ciascuno.
All’incontro di Francesco con il sultano dobbiamo idealmente riferirci per capire la complessità dei rapporti tra cristiani e musulmani e per mantenere vivi il nostro dovere di ricerca del dialogo e di costruzione della pace.
La secolare storia della Custodia in Terra Santa dimostra che l’umiltà, la testimonianza gioiosa, la carità fraterna, la forza del perdono, la semplicità, la continua proposta di una riconciliazione possibile, sono la via maestra che ha consentito di passare attraverso la travagliata storia di questo Paese e di costruire una convivenza che non soltanto ha permesso la conservazione dei Luoghi Santi e lo sviluppo dell’archeologia cristiana, ma ha garantito la sopravvivenza delle comunità cristiane, pietre vive di questa Chiesa.
Questa deve diventare oggi la strada privilegiata da percorrere: la sola che ci otterrà da Dio il dono della pace. È, per tutti i cristiani, un monito chiaro a ritornare alla logica del Vangelo.
La storia di questi ultimi sessant’anni si è fatta ancora più complicata. Dopo la fine della II guerra mondiale, nel 1948, la nascita dello Stato ebraico ha innescato un conflitto che, aggravatosi nel 1967, ancora oggi determina il clima di paura e di violenza che sembra dominare la Terra Santa. È la paura dell’altro, il considerare l’altro un potenziale nemico, che ha fatto alzare i muri nel cuore di due popoli fratelli. Non si può vivere di paura, perché allora prendono forma i muri che già ognuno si era costruito dentro il proprio cuore. Quanta responsabilità di questo clima abbiamo tutti, anche se non siamo palestinesi o israeliani? Quale responsabilità ci assumiamo quando soffiamo sul fuoco della paura, sul fuoco di tutti i razzismi?
Questa realtà è pagata duramente anche dalle comunità cristiane, costrette all’esodo dalle proprie terre e dalle città dove hanno vissuto per secoli e ora tentate fortemente dall’emigrazione.
La presenza dei cristiani non è un “incidente storico”, così come non lo è quella dei musulmani e degli ebrei. Insieme siamo qui, in questa terra, come segno della volontà di Dio, Signore della storia. Ora tocca a noi accettarci l’un l’altro, riconoscerci e trovare una forma per convivere nel rispetto e nella pace.
Come cristiani abbiamo un compito storico: non abbandonare la terra del Signore, stare qui, essere cristiani qui. La nostra presenza vuole essere fonte di equilibrio, essere segno di tolleranza, invito concreto a collaborare, a costruire insieme una nuova convivenza. È solidarietà non solo verso le comunità cristiane locali, ma anche verso tutti i figli e figlie dell’unico Signore, è tutela dell’identità dei Luoghi Santi, è profezia di nonviolenza. Le nostre opere e la nostra testimonianza devono dire chi siamo.
Il clima di solidarietà che esiste nelle parrocchie e nei centri parrocchiali, i luoghi di incontri per i giovani senza alcuna distinzione, la preoccupazione dell’accoglienza di quanti – immigrati da altri Paesi – giungono qui per motivi di lavoro, la costruzione di abitazioni per permettere alle famiglie cristiane di radicarsi nel loro territorio, le scuole aperte a tutti, l’attività scientifica e culturale pure aperta a tutti, l’animazione dei pellegrinaggi, la quotidiana attività ecumenica e di dialogo interreligioso, sono il nostro modo, concreto, di lavorare per la pace.
L’esigua minoranza della nostra presenza in Terra Santa non deve diventare timore della scomparsa dei cristiani da questa terra. La sfida più grande che dobbiamo affrontare è quella di non limitarci a subire le difficili situazioni in cui viviamo, ma di inserirci in esse con atteggiamento attivo e critico, ancorato e animato dalla speranza evangelica. Sperare è vivere oggi di una realtà che costituirà il nostro futuro.
Quando in questa minuscola porzione della terra verrà la pace, allora sarà giunto il tempo di una più grande pace per tutto il mondo.