Il fenomeno migratorio in Europa
Non parleremmo oggi di società multiculturale se non conoscessimo – in Italia, dalla fine degli anni Ottanta – le ondate di povertà e speranza che segnano dall’Est e dal Sud del mondo il fenomeno dell’immigrazione.
I migranti di tutto il mondo potrebbero formare insieme il quinto Paese del pianeta per numero di abitanti. È quindi semplicemente giusto e opportuno che le problematiche della migrazione siano una delle massime priorità politiche dell’Unione Europea e che se ne prenda piena consapevolezza, anche perché l’Europa stessa è cambiata: da continente d’emigrazione è diventata terra d’approdo per i migranti. Ad assorbire l’impatto di questi cambiamenti sono soprattutto gli Stati membri del Sud, l’Italia in particolare. Il nostro approccio al fenomeno deve quindi essere realistico: dobbiamo riconoscere che la migrazione internazionale è parte integrante del mondo odierno e che la questione centrale è come gestirla in modo efficace. Inoltre l’Europa – e non solo per ragioni demografiche – ha bisogno di donne e uomini extraeuropei per poter continuare la corsa dello sviluppo economico. Nonostante il recente allargamento che ha portato a circa 490 milioni la popolazione totale dell’UE, il numero di abitanti dell’Unione è destinato a diminuire nei prossimi decenni: entro il 2050 un terzo degli europei avrà più di sessantacinque anni e la carenza di lavoratori in diversi settori è già un problema evidente in molti Stati membri, anche in Italia. Per sostenere e migliorare la crescita economica nell’UE è essenziale che l’Europa diventi anche un polo d’attrazione per migranti altamente qualificati e che riesca quindi a richiamare studenti di talento nelle sue università. I migranti qualificati e altamente qualificati preferiscono gli Stati Uniti, il Canada e l’Australia. Noi abbiamo ancora una percezione delle migrazioni come di un fenomeno della sola povertà, mentre dobbiamo impegnarci al massimo perchè l’Unione diventi anche un magnete della migrazione di qualità.
È quindi nostro dovere sostenere la migrazione regolare, attrarre in Europa i migranti di cui abbiamo bisogno e integrarli bene nella società; al tempo stesso dobbiamo far fronte all’immigrazione irregolare, migliorare cioè i controlli alle frontiere e prevenire il lavoro clandestino nell’UE. Dobbiamo cooperare con i Paesi terzi ed esaminare le cause che sono all’origine della migrazione. Ciò di cui abbiamo bisogno è un approccio globale che correli la politica sulla migrazione con le relazioni esterne dell’UE e, soprattutto, con la politica di sviluppo.
La necessità di un sistema legislativo adeguato
Dobbiamo tener presente che i flussi migratori verso l’Unione sono compositi, fatti di migranti regolari, irregolari e di persone che chiedono asilo. In un mondo di trasporti e tecnologie ad alta velocità, i confini tradizionali risultano spesso vanificati e le misure decise in un Paese hanno inevitabilmente ripercussioni su altri, soprattutto all’interno dello spazio Schengen. Per questo dobbiamo evitare misure e concetti vaghi quali, per esempio, quello dell’“auto-sponsor”, contenuto nel Ddl Amato-Ferrero: gli effetti possono essere devastanti. Il rischio è infatti che si consegni un’occasione formidabile ai delinquenti che speculano sull’immigrazione. Prendiamo, per esempio, il traffico già molto fiorente della prostituzione in arrivo dall’Est Europa. Una ragazza entra dichiarando di fare la modella: è il sistema classico. Non potrà mai, però, versare la garanzia bancaria, mentre lo farà, senza problemi, il suo protettore. È un meccanismo criminale già diffuso, ma noi rischiamo di garantirlo e incentivarlo fornendogli una copertura legale: non è un caso che non ci siano esempi di questo genere negli altri Paesi europei.
Per questo è imperativo che si lavori insieme per affrontare il problema migratorio nella sua complessità con un approccio a largo raggio.
Sarebbe poi assai importante – è una proposta che ho lanciato e stiamo sviluppando – che la Commissione possa negoziare direttamente con i Paesi terzi, sulla base di quote indicative stabilite dagli Stati membri in funzione del fabbisogno dei rispettivi mercati del lavoro. Gli Stati membri continuerebbero a determinare il numero e il tipo di lavori disponibili sui loro mercati, ma a negoziare con i Paesi terzi in base alla somma delle quote provvederebbe l’Unione. Sarebbe poi importante disporre di procedure di ammissione comuni in tutta l’Europa per le varie categorie di lavoratori, così da permettere alla Commissione europea di indicare ai cittadini di Paesi terzi non solo dove possono trovare lavoro, ma anche gli adempimenti amministrativi necessari per entrare legalmente sul mercato europeo del lavoro.
Inoltre, dal momento che sono quasi due milioni i permessi di soggiorno rilasciati ogni anno nell’Unione a cittadini di Paesi terzi, per motivi di lavoro, familiari o di studio, penso che l’immigrazione non possa avere buon esito senza integrazione. Non mi stanco infatti di ripetere che non c’è immigrazione senza integrazione.
Per raggiungere questo obiettivo dobbiamo certamente fare di più, per garantire che gli immigrati siano apprezzati per il contributo che apportano alla società e siano incoraggiati a partecipare pienamente alla vita civile. Dobbiamo, in conclusione, garantire un trattamento equo e una serie di diritti ai cittadini di Paesi terzi in posizione regolare.
Integrazione e multiculturalismo
È però necessario anche interrogarsi sul perché integrazione sia diventata una parola difficile e su cosa significhi multiculturalismo, soprattutto dopo il “risveglio” dell’11 settembre e la scoperta, nel cuore dell’Europa, di seconde e terze generazioni di giovani immigrati pronti a ingrossare le fila dell’esercito del terrore. È indubbiamente un fenomeno nuovo, che è urgente affrontare, perché segna la crisi dei modelli messi a punto nei Paesi europei che hanno del fenomeno conoscenza ed esperienze storiche (soprattutto Gran Bretagna, Olanda e Francia).
Una delle massime priorità sarà quindi impegnarsi maggiormente per facilitare l’integrazione degli immigrati, come nel settembre 2005 già sottolineava un documento europeo, l’Agenda comune per l’integrazione. Saranno certo incoraggiate le politiche nazionali, ma abbiamo anche fissato obiettivi comuni che, pur rispettando le diverse tradizioni, culture e religioni, si conformano scrupolosamente alle leggi nazionali e comunitarie, al valore assoluto della vita e della dignità umana.
Dobbiamo però interrogarci sul perché l’integrazione sia così difficile. In realtà quello che noi ora percepiamo come rifiuto dell’integrazione nasce anche dalla crisi del modello di valori che l’Europa propone. Uscita dallo spavento e dallo sterminio della seconda guerra mondiale, l’Europa ha sognato e realizzato un ideale di pace all’ombra della Relazione transatlantica. Una conquista importante, realizzata nel tempo, a prezzo però, troppo spesso, del silenzio, dell’assenza e della paralisi nella scena internazionale. Il multiculturalismo che noi coltiviamo è il prodotto di una pluralità di condizioni che l’Europa attraversa. È certamente, nel suo primo significato, la prova oggettiva del nostro benessere: perché ha cambiato la geografia delle nostre appartenenze moltiplicando da Est e da Sud le spinte al cammino della speranza. Ma inteso come dimensione culturale, appunto, il multiculturalismo cui ora ci richiamiamo rischia di essere anche una declinazione spenta e relativizzata di un malinteso liberalismo, quello che prepara la “tirannia delle minoranze”. Si tratta inoltre anche di un rifugio e di una fuga dalla crisi della nostra identità: lo spavento del conflitto consiglia sempre più il silenzio sulle differenze di valori (il caso recente più evidente è la paura delle radici cristiane). Non dimentichiamo infine la “vedovanza” delle élites culturali e politiche per la caduta del comunismo e il crollo della mitologia marxiana: da qui il rifugio nell’eguagliamento del relativismo che metterà sullo stesso piano cucina indiana e poligamia.
Riassumendo, la nostra crisi di identità, quando è mascherata da un multiculturalismo superficiale e di facciata appare disarmata nel confronto con le identità politiche, religiose e culturali meglio definite (soprattutto a partire da un’immagine del mondo che vede nell’Occidente l’incarnazione del male).
Molte politiche di integrazione hanno puntato poi su relazioni e accordi con i gruppi e le comunità extraeuropee, più o meno recentemente insediate, guardando ai diritti di questi stessi gruppi e trascurando la dimensione dei diritti individuali. Così facendo hanno “involontariamente” lasciato alle comunità il governo di relazioni e rapporti interni, spesso antagonisti rispetto al nostro tessuto di regole (basterà pensare alla condizione delle donne, in particolare, e dei giovani, in generale, rispetto alla scelta del loro marito o moglie). Questa separatezza presenta il paradosso di consentire l’esistenza di vere e proprie enclaves dove lo Stato è assente (e dove sembra venir meno anche una sovranità nazionale). Dobbiamo quindi saper bilanciare la relazione con le comunità (che rappresentano il tessuto di una positiva appartenenza per chi è lontano dal proprio Paese) con la valorizzazione delle prerogative di ogni individuo in quanto tale.
Multiculturalismo non può essere sinonimo di indifferenza, e non può e non deve significare che tradizioni, pratiche e costumi diversi siano da un lato considerate tutte indifferentemente uguali, dall’altro tutte confinate nel “foro” della coscienza individuale perché la loro eventuale pubblicizzazione ferirebbe la coscienza dell’altro. Da qui il tentativo, per esempio, di risolvere la diversità religiosa con l’occultamento dei suoi simboli, o la decisione delle catene di grandi magazzini, in Europa, di non vendere o esporre a Natale le statuine del presepe per non offendere i credenti di altre religioni.
Se non riconosciamo alla nostra tradizione il diritto di tramandarsi, e se non ci sentiamo impegnati a confermarla, certo rinnovandola e aprendola alla conoscenza della diversità, il nostro mondo diventerà a poco a poco opaco, i nostri figli senza radici, la nostra voglia e passione di vivere completamente spenta.
L’impegno dell’Unione Europea
Di recente, abbiamo inaugurato a Vienna la nuova Agenzia per i diritti fondamentali, il rispetto dei quali è imprescindibile per una buona integrazione. Dobbiamo essere i garanti di un’identità europea, improntata al rispetto di questi diritti, che significa testimoniare la fede nei nostri valori nella condizione della libertà e della reciprocità. In altri termini, dobbiamo riuscire a promuovere l’integrazione degli immigrati nella nostra società rispettandone i diritti in quanto individui e alimentando in loro la nascita di una cultura dei doveri. Dobbiamo quindi chiarire approfonditamente che cosa intendiamo con il termine “integrazione” nell’Unione Europea, individuare i primi obiettivi e le misure fondamentali in ambiti come il lavoro, l’istruzione, il rispetto della diversità, il dialogo fra i cittadini. Coinvolgere gli enti locali, che agiscono in prima linea a favore dell’integrazione, è essenziale.
Dovremmo affidare a una rete di grandi città il ruolo di promuovere quel che potremmo definire un dialogo strutturato con le comunità di immigrati, che hanno scelto di vivere nei maggiori centri europei. Si tratta di istituire un quadro per esaminare i problemi e proporre soluzioni che promuovano l’integrazione.
Da un lato abbiamo i valori europei con, al centro, l’individuo; dall’altro i valori identitari e culturali delle comunità di immigrati, che tendono a limitare la dimensione individuale. Questi incontri devono servire a promuovere lo scambio di conoscenze, per favorire comportamenti nuovi. La nostra società, che oggi accoglie un flusso migratorio crescente, dopo secoli di guerre e spargimenti di sangue, è stata in grado di ricostruirsi sull’uguaglianza e sulla libertà, sul rispetto della persona.
L’idea mi è venuta riflettendo sui recenti problemi verificatisi a Milano con la comunità cinese, un esempio che conferma quale rilevanza abbiano gli enti locali per attuare il principio di sussidiarietà, essendo più vicini ai cittadini e in grado di reagire tempestivamente all’insorgere di un problema.
Al Forum sull’integrazione di Milano, un evento che si terrà a ottobre, le città si incontreranno nuovamente, dopo l’esperienza positiva di Rotterdam dell’anno scorso. In quell’occasione spero che ogni città si impegni a proseguire e sviluppare questo tipo di dialogo.
Parlando di multiculturalismo e integrazione dobbiamo soprattutto stringere “alleanze” e trovare soggetti impegnati a svilupparla. Ho pensato ai bambini, ai loro diritti, all’assoluta necessità di proteggere questi soggetti più vulnerabili e indifesi in una società di adulti troppo spesso violenta. La Carta dei diritti presentata a Strasburgo l’anno scorso è impostata sui valori e sui diritti fondamentali di una società adulta. Bambini e adolescenti dovrebbero essere quindi i primi a entrare in contatto con questi principi e a metterli in pratica fra loro. Non dimentichiamo che toccherà a loro interpretare la Carta, in una società che diventa sempre più multietnica.
I bambini hanno in effetti delle opportunità uniche: quella di capirsi immediatamente, senza nutrire i timori e le diffidenze degli adulti, e quella di essere, da subito, i migliori interpreti della nostra Carta dei diritti. Sono loro, in effetti, gli interpreti per eccellenza del cammino verso l’integrazione; sono loro che gettano le fondamenta di una società integrata. Ho l’impressione che non abbiamo ancora l’esatta misura di quanto sia importante il contributo dei bambini per il futuro della nostra e della loro società: forse dovremmo impegnarci maggiormente in questa direzione.



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