Democrazia e comunitarismo
Nathan Sharansky ha osservato che democrazia significa poter stare al centro di una piazza di una città ed esprimere apertamente il proprio pensiero senza il timore di essere imprigionato. E ha aggiunto che la democrazia implica la garanzia dei diritti umani, la sicurezza individuale e l’aspirazione alla pace. Pertanto la democrazia è possibile soltanto in una società aperta fondata su una visione umanistica, che pone al suo centro i diritti e il rispetto della persona umana. Ne consegue altresì che la visione democratica è, per sua natura, universalistica: essa non conosce frontiere e barriere e, se ne incontra, tende a travolgerle.
È bene notare che, quando parliamo di frontiere, intendiamo non soltanto quelle ordinarie, geografiche, ma soprattutto le barriere sociali, culturali, religiose, etniche. Ne discende un’altra conclusione e cioè che la democrazia e il comunitarismo sono intrinsecamente contraddittori. Intendiamo per “comunitarismo” quella visione dell’organizzazione sociale secondo cui il massimo rispetto delle diverse comunità culturali o etniche può essere garantito soltanto conferendo loro spazi di autonomia completa, all’interno dei quali esse possono gestire la loro vita sociale, culturale e religiosa senza alcuna interferenza esterna. Come vedremo, il comunitarismo è intrinsecamente legato all’ideologia multiculturalista. La natura universalistica della democrazia la pone inevitabilmente in rotta di collisione con la visione particolaristica del comunitarismo: dove si afferma il secondo non può sopravvivere la prima e, viceversa, un’autentica democrazia non può ammettere il comunitarismo.
Vorremmo evidenziare una caratteristica della società democratica con le parole di Fania Oz-Salzberger: “La democrazia liberale è l’organizzazione di una società o di uno Stato il cui scopo dichiarato è stabilire un ordine logico fra i desideri dei singoli appartenenti, preservandone la libertà. Il sistema media così tra le volontà dei singoli attraverso l’indicazione e la decisione della maggioranza”. Sottolineiamo queste ultime parole – “attraverso l’indicazione e la decisione della maggioranza” – in quanto mettono in luce che un sistema di democrazia liberale si regge sull’esistenza di una maggioranza, ovvero di una cultura dominante che si fa garante delle libertà e dei diritti di tutti. Sia ben chiaro: il carattere dominante di una formazione culturale, la sua egemonia, non implica alcuna funzione oppressiva. Al contrario, questa egemonia è necessaria affinché il sistema democratico funzioni e garantisca i diritti e le libertà. Essa decade e diventa un’ostruzione alla democrazia, se perde il ruolo di garante, o si dimostra incapace di espletarlo, o se lo fa degenerare trasformando l’egemonia in prepotere.
Il legame democrazia-nazione
La democrazia liberale ha quindi come moventi la razionalità e l’universalità, e per questo essa pone al suo centro i temi dei diritti dell’uomo e della conoscenza, attribuendo così un ruolo importante anche alla conoscenza scientifica. Se la tendenza all’universalismo – evidente conseguenza dell’influsso della concezione ebraica e cristiana della persona umana e della sua dignità (indipendentemente dalla sua nazione o etnia o classe sociale) – implica una certa propensione al cosmopolitismo – infatti la democrazia tende ad abbattere le barriere -, questa propensione si è manifestata storicamente all’interno dell’idea di nazione e nel concreto degli Stati nazionali. Questo è un punto centrale da non dimenticare: la realtà storica dello sviluppo delle democrazie liberali è avvenuta nel contesto degli Stati nazionali. Noi non abbiamo conosciuto altra realtà storica e, fino a oggi, nessuno ha saputo proporre un contesto diverso in cui la democrazia liberale possa prendere forma.
Pertanto, qualsiasi cosa si pensi e si desideri, il legame tra democrazia e nazione è un aspetto ineludibile. Le ambiguità della costruzione europea stanno tutte qui. Nel processo di transizione dalle realtà nazionali verso qualcosa che non si sa ancora esattamente che cosa sia, che cosa si vuole che sia e neppure se lo si voglia davvero, zone intere delle sfere decisionali finora riservate alla democrazia sono passate nella sfera della tecnocrazia: si pensi, in particolare, alla politica economica, alla politica della ricerca scientifica e della cultura. Non c’è da stupirsi allora, che i tentativi di formulare una Costituzione europea – ovvero qualcosa che dovrebbe esprimere una visione unitaria e condivisa della convivenza sociale e dei fini di una società, che non può essere ridotto a una media ponderata di idee differenti o a un marchingegno tecnocratico – abbiano incontrato grandi difficoltà.
Quando si mette in discussione il ruolo della nazione senza aver chiaro in mente un contesto alternativo credibile, si corre il rischio che, per reazione, si accentuino processi di disgregazione che mettono in discussione i fondamenti della democrazia. Oggi gli Stati nazionali, in particolare in Europa, sono assediati dall’interno e dall’esterno da un processo di frammentazione che ne distrugge l’unità. Questo processo si manifesta a vari livelli . Innanzitutto, si ha quel che potremmo definire un processo di etnificazione che presenta due aspetti. Il primo è il processo di regionalizzazione, di per sé positivo, nella misura in cui realizza forme di decentramento funzionale, ma che talora viene declinato in una versione di indigenizzazione: l’appartenenza regionale viene caratterizzata da un sentimento di appartenenza etnica primordiale, proponendo l’immagine costruita dal nulla di un’identità aborigena che sarebbe stata violata da “altri”, identificati con lo Stato nazionale, “occupante” o “colonizzatore”. Il secondo aspetto è rappresentato dalle etnificazioni degli immigranti, che assumono le caratteristiche di diaspore separate dal contesto della società circostante, le quali mantengono un legame di fedeltà con un’altra patria esterna e si collocano in una dimensione comunitarista. È importante rilevare che si manifesta di conseguenza un fenomeno di etnificazione di parti intere delle stesse comunità nazionali autoctone. Gli esempi sono evidenti in numerose periferie italiane ed europee, anche ormai in intere città, dove il crearsi di quartieri interi di immigrati che vivono in condizione di separazione e sempre più marcata autonomia (fino a sottrarsi alle leggi dello Stato) conduce all’etnificazione degli autoctoni circostanti, i quali si identificano sempre di più, per contrasto, non come “cittadini” ma come “italiani”, “francesi”, “milanesi”, “parigini”, ecc.
La frammentazione della conoscenza
Questi processi si accompagnano a un fenomeno più generale e che ha gravissime conseguenze anche per la democrazia: la progressiva frammentazione in zone separate della sfera della produzione della conoscenza. La storia ci insegna che esiste un legame forte tra lo sviluppo scientifico-culturale e una forte identità di tipo nazionale. Per esempio, le accademie scientifiche – che sono state la prima forma di organizzazione istituzionale della scienza e della cultura e un decisivo elemento di propulsione – si sono accompagnate alla formazione degli Stati nazionali. Là dove lo Stato nazionale non si è formato, o è deperito, queste istituzioni non si sono sviluppate, con gravi conseguenze per la crescita della cultura e della scienza (e, di conseguenza, della tecnologia). Un esempio caratteristico è dato proprio dalla storia italiana: in Italia si è costituita la prima accademia scientifica del mondo, l’Accademia dei Lincei, la quale però si è presto dissolta per l’assenza di uno Stato nazionale, che ha invece sostenuto le accademie francese o britannica, consentendo loro di diventare centri propulsivi della scienza, della tecnologia e della cultura europee. La difesa del valore delle culture locali è fondamentale, ma non si deve confondere la difesa delle culture regionali con la regionalizzazione della cultura, dell’istruzione, della scienza. Un conto è difendere la memoria delle letterature regionali e dialettali, un conto è svalutare la letteratura nazionale e il ruolo delle lingue nazionali, o credere che si possa sviluppare una fisica “friulana” o una biologia “siciliana”. La scienza ha una tendenza spontaneamente cosmopolita e fiorisce soltanto su tali basi. La scienza italiana ha subito un colpo durissimo dall’autarchismo culturale del fascismo, figuriamoci a cosa potrebbe condurre la riduzione a un contesto addirittura localistico. Coloro che pensano di risollevare il sistema dell’istruzione italiano, in particolare universitario, proponendo una gestione strettamente localistica, si muovono in una direzione pericolosa e distruttiva.
Il rischio che abbiamo di fronte è di incamminarci verso una frammentazione di tipo medioevale, senza che esista una Chiesa che abbia la forza di allora nel difendere, in attesa di tempi migliori, l’unità della cultura e del pensiero e la trasmissione del lascito culturale del passato. Nell’ambito europeo, al posto della Chiesa rischia di esserci un ben diverso attore di unificazione – poiché la sfera sociale non ammette vuoti e postula comunque dei fattori unificanti – assai inquietante, ovvero l’integralismo islamico. Ciò appare già evidente in numerosi contesti: sia nei suburbi londinesi che in Olanda, l’integralismo islamico rappresenta un collante più potente della cornice democratico-liberale dei vecchi Stati nazionali.
Può apparire curioso che questi processi si manifestino soprattutto in Europa, culla della democrazia e delle identità nazionali, ma si tratta, almeno in parte, di una reazione alla degenerazione in senso razziale e coloniale dell’idea di egemonia di cui si diceva sopra. Difatti, un grande disastro della storia europea è stato l’aver confuso l’egemonia politico-culturale con quella di un’etnia o di una razza, di aver proposto una sorta di etnificazione della cultura, o addirittura una sua rappresentazione in termini razziali. Non è possibile esplorare qui le cause di questa degenerazione, che ha avuto come esito le catastrofi dei totalitarismi del Novecento: trattasi di un argomento complesso che abbiamo esplorato altrove. Diremo soltanto che questa degenerazione si è consumata nella dialettica tra scientismo e romanticismo, nel conflitto tra l’idea di rigenerazione sociale e il richiamo alle “radici”. Come reazione, è nata la critica post-moderna del cosiddetto essenzialismo, ovvero la critica di quel razionalismo umanistico che è al cuore del progetto democratico. Essa ha assunto come paradigma il principio secondo cui, nel cosiddetto mondo “postcoloniale”, l’idea di una cultura come universo autonomo e internamente coerente è insostenibile, in quanto non è possibile creare una contrapposizione tra “noi” e “loro”. Si arriva al punto di negare come valori l’autenticità e la coerenza, in quanto categorie appartenenti al mondo coloniale o pre-coloniale. La nuova prospettiva è quella della società multiculturale, la società dell’ibridismo e della creolizzazione.
In quel che segue vorrei argomentare perché il multiculturalismo esprime una visione fuorviante e sbagliata, antitetica alla democrazia, frutto di un pensiero intellettualistico ed elitario, e sicura fonte di degenerazione comunitarista e persino razzista.
Gli errori del multiculturalismo
Iniziamo con lo sgomberare il terreno dalla consueta confusione tra multiculturalità e multiculturalismo. La prima è un dato di fatto, mentre il secondo rappresenta un programma ideologico. La confusione tra i due concetti serve a contrabbandare il secondo come una necessità oggettiva e ineludibile. Che la multiculturalità sia soltanto un dato di fatto è stato ben spiegato da Claude Lévi-Strauss, quando ha affermato che il termine “monoculturale” “è senza senso, perché una società del genere non è mai esistita. Tutte le culture sono prodotto di mescolanze e incroci, fin dalla notte dei tempi. A causa del modo in cui si è formata, ogni società è multiculturale ed è pervenuta col tempo a una sintesi originale. Ognuna mantiene più o meno rigidamente quella miscela che costituisce la sua cultura a un dato momento”. Una simile visione esclude correttamente la concezione dell’identità come un mosaico di identità indipendenti. Ogni identità è una miscela in cui le componenti hanno perso la loro distinzione per fondersi in una sintesi originale, che costituisce quella data cultura in quel dato momento storico. Al contrario, il multiculturalismo post-moderno considera una determinata società come un mosaico di etnie, ciascuna delle quali è una sorta di atomo costitutivo dotato di caratteristiche identitarie irriducibili. In tal modo, la struttura di una società rinvia sempre a qualcosa che sta “prima”: per i multiculturalisti, come per tutti i pensatori palingenetici, la purezza è nelle origini. L’ideale di società dei multiculturalisti non consiste né nella cristallizzazione degli atomi identitari in entità separate – e in ciò essi criticano giustamente il pensiero coloniale e razzista – né nella loro fusione, che sarebbe frutto della propensione all’omologazione tipica del pensiero universalista di stampo illuministico; bensì in un processo di ibridazione e “creolizzazione” che tuttavia assume come punto di partenza il rispetto della separatezza degli atomi identitari. L’errore consiste nel conferire un valore primario a questa separatezza. Volendo difendere le identità minoritarie, “aggredite” e messe a rischio dall’omologazione universalista, e propugnando la difesa a oltranza della loro diversità, quanto meno fino a che non sia esorcizzato il rischio dell’omologazione, il multiculturalismo finisce col riproporre un discorso razzista. L’illusione dei multiculturalisti è che possa esistere una società libera e tollerante senza che essa sia guidata da una cultura espressione di quella sintesi originale ed egemonica di cui parlava Lévi-Strauss.
I multiculturalisti mirano alla realizzazione di una società libera dall’“essenzialismo” razionalista, mediante una fase intermedia che passa attraverso un “villaggio globale”, una collezione di identità divise che difendono la loro separatezza (il modello comunitarista). A essi non sfugge perciò che il “villaggio globale” non può rappresentare un’entità stabile. Qual è il collante che lo terrà insieme? Naturalmente l’ideale della coesistenza delle diversità. E chi sarà in grado di convincere tutti della bontà di un ideale siffatto e di garantire la sua concreta ed efficace applicazione? Coloro che hanno definito e padroneggiano culturalmente le caratteristiche teoriche del mondo della multiculturalità: un’élite culturale, un’élite di consiglieri, una sorta di pontificato del multiculturalismo, destinato a svolgere un ruolo analogo a quello della Chiesa cattolica nel caos dei primi secoli del Medioevo.
È necessario riprendere i valori dell’umanesimo universalista
Non si tratta di fantasie. Basta guardare al ruolo assunto negli Stati Uniti dalle élites dell’antropologia post-coloniale e all’influsso concreto che esse esercitano attraverso l’ideologia del “politicamente corretto”, per rendersi conto della concretezza di quanto precede. L’Europa, meno percorsa da questo genere di dibattiti, rischia tuttavia di assorbire – per una serie di ragioni che non è possibile qui approfondire – i precetti del politicamente corretto in forme più schematiche, ma anche più radicali.
Di che stupirsi? In un’epoca in cui la valutazione dei “prodotti” culturali o scientifici è materia dei “docimologi”, in cui l’educazione e l’istruzione sono di stretta competenza del pedagogismo metodologico, è inevitabile che i processi sociali cadano sotto i tentativi di controllo di élites che pretendono di possedere una sorta di esclusività. L’aspetto derisorio della faccenda è che viene così riproposta una delle visioni più discutibili del tanto odiato illuminismo, quella che conduceva il Marchese di Condorcet a enunciare la sfortunata (e antidemocratica) massima: “Una società che non è governata dai filosofi è destinata ad essere governata dai ciarlatani”.
Il progetto multiculturalista, come tutti i progetti intellettualistici, è destinato a fallire, ma non è detto che ciò avvenga a vantaggio di una riscossa dello spirito della democrazia liberale. Abbiamo osservato come uno dei rischi principali sia quello di alimentare nuove forme di razzismo. Già una trentina di anni fa sempre Claude Lévi-Strauss, in una celebre conferenza Unesco su Razza e cultura, osservava che “la via in cui gli uomini si sono oggi incamminati accumula tensioni tali che gli odî razziali offrono una ben povera immagine del regime di intolleranza esacerbata che rischia di istaurarsi domani, senza che neppure gli debbano servire di pretesto le differenze etniche”. Ma il rischio peggiore è che un altro attore, certamente neppure immaginato da Lévi-Strauss mentre scriveva quelle righe, si inserisca in questi processi degenerativi. Oggi avanzano nuovi soggetti, come già nel periodo in cui iniziò a chiudersi la fase buia del Medioevo. Il principale di questi è rappresentato dal progetto islamista di attacco globale alla civiltà occidentale e di restaurazione del califfato. Esso rappresenta un progetto forte che mira a utilizzare strumentalmente gli spazi offerti dal multiculturalismo per disgregare le società europee, inserendo in esse sacche comunitarie governate in piena autonomia secondo i principi della sharia, marginalizzando progressivamente i principi della democrazia liberale e dei diritti della persona. L’ipotesi multiculturalista è pericolosa e distruttiva ed è espressione della sfiducia dell’Occidente nei principi di cui sopra e nelle tradizioni culturali, etiche e religiose da cui derivano. Ma il rischio peggiore è che diventi il cavallo di Troia di un diverso progetto a mira egemonica.
Sta a noi decidere se la democrazia riuscirà a riproporsi come protagonista, magari anche vincente, nel drammatico processo di autodisgregazione che sta attraversando l’Occidente, e segnatamente l’Europa. Ciò dipenderà principalmente da una ritrovata capacità di credere nei valori di un umanesimo universalista fondato sui diritti della persona e di non permettere che la democrazia venga sconfitta in quelle situazioni in cui le è stata lanciata la sfida più radicale.