L’immigrazione è una sfida epocale con cui molti Paesi europei sono da tempo chiamati a misurarsi. Per molti anni ci si è limitati a una prospettiva di tipo economicista, focalizzando l’attenzione sui problemi legati al governo dei flussi e all’accesso al welfare da parte degli stranieri, ma è sempre più evidente che la partita da giocare è ben più ampia: essa riguarda le modalità di convivenza tra nativi e immigrati, e richiede un giudizio e un progetto sul modello di società che si vuole costruire. Gli stati europei che da più tempo si confrontano con le problematiche connesse all’immigrazione stanno scontando l’inadeguatezza delle politiche d’integrazione messe in campo: un’inadeguatezza legata sia all’oggettiva complessità e mutevolezza delle domande con le quali ci si deve misurare, sia alla debolezza di fondo a cui attingono le risposte, e che in ultima analisi rimanda alla crisi d’identità che attraversa il Vecchio continente.
Francia: l’universalismo ha il fiato corto
La Francia ha attuato un modello d’integrazione sostanzialmente assimilazionista, fondato sull’affermazione di alcuni valori universali “figli” della Rivoluzione (libertà e uguaglianza) e sul principio della laïcité, che stabilisce la rigida separazione tra la sfera pubblica e quella religiosa. Questo modello è entrato in crisi perché i suoi principi teorici non hanno retto l’impatto con una realtà in trasformazione. Da una parte non sono state mantenute le promesse universaliste di libertà e uguaglianza, come dimostrano gli alti tassi di disoccupazione, marginalità e insuccessi scolastici nella popolazione di origine straniera, sfociati in maniera drammatica nei disordini delle banlieues. Dall’altra parte, la tendenza a forgiare una cittadinanza a partire da valori essenzialmente a-religiosi, si è scontrata con la crescita della comunità musulmana (cinque milioni di fedeli, la più numerosa in Europa), all’interno della quale è aumentata l’influenza delle posizioni radicali che rifiutano di rinchiudere la religione nella sfera privata e rivendicano il riconoscimento di prerogative legate alla pratica dell’islam sulla scena pubblica. La legge che vieta di indossare simboli religiosi nelle scuole statali è l’epifenomeno di una contrapposizione tra i sostenitori di una laïcité che, per raggiungere l’obiettivo di arginare l’integralismo islamico, rischia di negare nei fatti la valenza pubblica di qualsiasi espressione religiosa affermandosi come una sorta di nuova religione di Stato.
Non è un caso che il neopresidente Nicholas Sarkozy abbia riconosciuto la necessità di rimodellare i rapporti tra lo Stato e le comunità religiose, affermando una concezione di “laicità positiva, capace di garantire il diritto di vivere la propria religione come un diritto fondamentale della persona” e affermando che “la laicità non è nemica delle religioni”, dalle quali può venire un contributo determinante alla convivenza.
Gran Bretagna e Olanda: il tramonto del multiculturalismo
Gran Bretagna e Olanda sono stati, seppure con modalità differenti, i Paesi che hanno sperimentato e attuato il modello d’integrazione basato sul multiculturalismo. La possibilità concessa alle diverse comunità etniche e religiose di organizzarsi a partire da proprie regole e usanze, è andata a scapito della condivisione di valori forti e unificanti e ha favorito la nascita di “pezzi” di società parallele e autoreferenziali con rapporti forti al loro interno, ma fragili col resto del Paese. Il multiculturalismo si è ormai ridotto a una cornice per la convivenza di culture separate, piuttosto che fungere da meccanismo di transizione volto a integrare i nuovi arrivati nella cultura del Paese in cui hanno deciso di mettere radici. In ultima analisi, esso è figlio del relativismo culturale, che genera a sua volta il relativismo giuridico, cioè il tentativo di dare una legittimazione sul piano legislativo alle diversità che caratterizzano le minoranze. Si viene così a determinare una “pluralità di monoculturalismi”, una sorta di Babele che, puntando a salvaguardare le diversità, rende sempre più difficile una convivenza ordinata in nome di principi condivisi.
Gli attentati di Londra del 7 luglio 2005 (cinquantadue morti e centinaia di feriti) hanno fatto divampare il fuoco che in Inghilterra da tempo covava sotto la cenere. Coloro che li avevano organizzati e preparati non erano “nemici” venuti da lontano, ma persone di cittadinanza inglese. Giovani di origine prevalentemente indo-pakistana, ma già di seconda generazione. E gli inglesi si sono interrogati: come è stato possibile che persone cresciute accanto a noi abbiano potuto coltivare un sentimento di estraneità e di ostilità tale da spingerli a commettere simili gesti? Come a dire: “Sono tra noi, ma ci sono estranei”.
Il governo Blair ha cercato di recuperare il terreno perduto promuovendo iniziative tese a incrementare il senso di appartenenza alla nazione, per esempio chiedendo a chi vuole vivere a tempo indeterminato sul suolo inglese di sostenere un impegnativo test di Britishness, per misurare il tasso di “britannicità”. Per superarlo è necessario conoscere in maniera approfondita, oltre che la lingua inglese, la storia, le leggi e le consuetudini del Regno Unito.
L’altro alfiere europeo del modello multiculturale è l’Olanda, nazione antesignana delle cosiddette libertà civili e che ha fatto da apripista su alcuni terreni come la liberalizzazione delle droghe, l’eutanasia, il matrimonio fra omosessuali. Da sempre ha attuato una politica di apertura all’immigrazione e all’asilo politico con ampi spazi di libertà riconosciuti alle comunità straniere. Anche qui c’è stato un evento traumatico che ha sconvolto le coscienze: l’omicidio del regista olandese Theo Van Gogh, autore del film Submission, una provocatoria denuncia della condizione delle donne nelle famiglie di tradizione musulmana. Il regista è stato accoltellato ad Amsterdam da un olandese di origini marocchine che ha lasciato sul suo corpo un foglio con frasi del Corano per indicare la matrice culturale dell’omicidio: il suo film era ritenuto offensivo nei confronti dell’islam. Da quell’episodio è scaturito un acceso dibattito sui limiti da imporre all’espressione delle diverse culture e sulla necessità di promuovere forti politiche di integrazione. Molto significativa risulta la dichiarazione di un ricercatore dell’Istituto per l’immigrazione e gli studi etnici dell’Università di Amsterdam: “I giovani di seconda generazione, in particolare marocchini, hanno un’identità frammentata, sono al tempo stesso olandesi, marocchini, musulmani; se a un certo punto hanno scelto di puntare solo sull’islam, è perché hanno concluso che l’essere musulmani gli impediva di riconoscersi nell’Olanda”.
Italia, cercasi modello
In questi anni l’Italia è stata investita da un flusso migratorio senza precedenti e che non è destinato ad arrestarsi. Gli stranieri regolarmente presenti sono circa tre milioni, ai quali si deve aggiungere una quota di irregolari stimata in 700.000 unità: complessivamente rappresentano il 7% della popolazione. Il nostro è uno degli ultimi Paesi europei ad aver conosciuto l’immigrazione come fenomeno di massa. Peraltro, i flussi d’ingresso sono stati assai più massicci (e mal governati) che altrove: negli ultimi venticinque anni la componente straniera è decuplicata, e negli ultimi sei anni ci sono stati circa 300.000 ingressi all’anno.
Nella scuola gli stranieri sono decuplicati in un decennio: erano 50.000 nel 1996, oggi sono mezzo milione. Da alcuni anni la popolazione non diminuisce solo grazie al contributo demografico degli immigrati.
L’immigrazione è un dato permanente e incancellabile della società italiana, che la sta cambiando e ne viene a sua volta cambiata. Iniziative di accoglienza si mescolano con episodi di razzismo e intolleranza, esperienze di integrazione e convivenza si affiancano ad altre caratterizzate da comunità autoreferenziali, ghetti urbani, veri e propri “mondi a parte”. Sorgono domande nuove e si devono affrontare problemi inediti, legati alla diversità di culture, tradizioni e mentalità.
A differenza dei Paesi che l’hanno preceduta nella storia dell’immigrazione, l’Italia non ha ancora elaborato un progetto organico e compiuto di integrazione. Per farlo in maniera realistica, essa deve tenere conto sia dei limiti evidenziati in Europa dal modello assimilazionista e da quello multiculturalista, sia delle proprie peculiarità storiche e culturali.
L’Italia non è un libro con le pagine bianche su cui si può scrivere a piacimento, prescindendo da ciò che è stato già scritto nei secoli precedenti, né è paragonabile a un deserto dove ognuno può piantare la propria tenda e impostare la convivenza a prescindere da ciò che già esiste. Quando si parla di “come convivere”, non si può simulare di essere all’anno zero. Serve un progetto che “peschi” nel passato e nel contempo sia capace di valorizzare il “nuovo” che si affaccia da mondi lontani ma sempre più vicini.
Il modello di integrazione più adeguato alla storia e alla realtà del nostro Paese può essere sintetizzato nella formula dell’identità arricchita. Esso si fonda su una doppia dinamica: da una parte il recupero e la proposta di ciò che sta a fondamento della società ospitante, dall’altra la disponibilità a recepire ciò che può integrarla, all’interno di una logica di incontro. Chi vuole mettere radici in Italia deve conoscerne la lingua, il patrimonio di storia, cultura e tradizioni che hanno “fatto” questo Paese e che costituiscono il cuore della convivenza, e deve ovviamente rispettare le regole che la governano. Non si tratta di un’opzione tra le tante, ma di una necessità alla quale non ci si può sottrarre, una sorta di dichiarazione di lealtà che si deve esplicitare in comportamenti conseguenti. Perché ciò accada, è necessaria una disponibilità da parte dei migranti, ma insieme è richiesta ai “nativi” la volontà e la capacità di comunicare e testimoniare ciò che si chiede di condividere.
Perché l’aggettivo “arricchita”? Perché l’identità di un popolo e di un Paese non è qualcosa di statico, immutabile e autoreferenziale: è invece una realtà dinamica e aperta, disponibile all’incontro con altre identità che si affacciano, e capace di amalgamare le novità che incontra sul suo cammino e di arricchirsi con esse, vigilando al tempo stesso perché non vengano messi in discussione i fondamenti culturali, sociali e giuridici che si sono sedimentati in una storia plurisecolare.
È astratto pensare che la “convivenza nuova” possa essere generata da una semplice “mescolanza” delle identità, replicando così gli errori insiti nella strategia del multiculturalismo. Una società multietnica e armonica nasce dalla proposta esplicita e dalla condivisione – dentro l’esperienza quotidiana dei singoli e delle comunità – di valori fondamentali come la centralità della persona, la sacralità della vita, la sua tutela e la sua promozione, la libertà politica, economica e religiosa, la laicità, il pluralismo e la democrazia, la pari dignità tra uomo e donna, il rifiuto esplicito della violenza come strumento di lotta politica e civile.
Inutile illudersi: serviranno generazioni perché un’autentica integrazione possa realizzarsi, ed è certamente necessaria un’esplicita disponibilità da parte dei migranti ad accettare le regole che fondano la convivenza, ma se la società ospitante non possiede la necessaria consapevolezza di ciò che la costituisce non sarà capace né di accogliere né di integrare; anzi, prevarrà la paura del “nuovo” nel quale si identifica una minaccia alla propria sicurezza o addirittura alla propria sopravvivenza. La xenofobia nasce dalla paura che “il diverso” metta a rischio una convivenza già di per sé fragile perché non fondata su valori condivisi, quindi dall’esistenza di un “vuoto” piuttosto che dall’ostentazione di un “pieno” che sovente nasconde fragilità e insicurezza. Per questo le comunità straniere costituiscono una sfida vertiginosa per la società italiana, costretta a interrogarsi sulla consistenza di ciò che la costituisce, a ritrovare le idealità e le ragioni profonde che la definiscono come nazione e come comunità umana.
In un’epoca di relativismo culturale e giuridico, è più che mai necessario un “io” forte e cosciente di sé, ma esso non può esistere e crescere senza rapportarsi con un “tu”, ed è questa la conditio sine qua non per arrivare a concepirsi tutti, nativi e migranti, come un “noi”. Occorre dunque un’“antropologia relazionale”, capace di valorizzare la natura dell’uomo come creatura per la quale il rapporto con l’altro è qualcosa di costitutivo: la relazione più generativa è quella fondata sull’incontro di due diversità che si riconoscono e si completano.
Un nota bene finale: l’”identità arricchita” non è un modello elaborato a tavolino e calato dall’alto, è piuttosto un’ipotesi di lavoro da affinare dentro un confronto e una verifica serrata con la vita quotidiana. Perché questo possa accadere, ci sono due condizioni fondamentali: una società civile forte, operosa e consapevole del proprio ruolo, e delle istituzioni pubbliche capaci di ascoltare e valorizzare ciò che dentro la società si va costruendo. In questa prospettiva è necessario passare da un’impostazione sostanzialmente bipolare – che vede da una parte l’individuo e dall’altra lo Stato – a una nuova impostazione in cui siano protagonisti individuo, società civile e Stato, e nella quale in nome di una sussidiarietà reale lo Stato sappia valorizzare e aiutare ciò che la società civile costruisce.
Se si vuole davvero governare l’immigrazione, e fare in modo che venga considerata una risorsa anziché una minaccia, sono necessari “patti chiari per una lunga amicizia”. Per costruire una convivenza solida e duratura servono regole forti e condivise, una politica lungimirante e una società civile cosciente di sé e aperta, capace di incontrare il “nuovo” senza esserne travolta.



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