La proposta Amato-Ferrero
Sembra una tela di Penelope capovolta. Tante riforme per disfare quanto fatto dal governo precedente: ma non tutte le riforme si limitano a questo. Quella elaborata nelle sue linee generali dai ministri Amato e Ferrero fa di più.
Quando un governo di centrosinistra mette mano alle politiche dell’immigrazione, lo fa quasi sempre per ridurre le restrizioni introdotte da un governo di centrodestra. Negli ultimi vent’anni in Europa ci sono state trentasette riforme delle leggi nazionali sull’immigrazione. Il 60% di quelle varate dai governi di centrodestra ha cercato di erigere nuove barriere contro l’arrivo degli immigrati, mentre quattro riforme su cinque targate centrosinistra sono andate in senso opposto.
Questi cambiamenti rispondono a motivazioni di natura ideologica. Non esiste altra ragione per spiegare come coalizioni che hanno molti elettori fra i lavoratori manuali, quelli che hanno più da temere dalla concorrenza di immigrati poco qualificati, aprano le frontiere.
C’è però più pragmatismo nelle proposte elaborate dai ministri Amato e Ferrero. Per la prima volta il nostro Paese sceglie la strada dell’immigrazione selettiva, favorendo soprattutto l’arrivo di immigrati con un più alto livello di istruzione. È una strada ideologicamente forse meno digeribile dell’apertura delle porte a tutti, ma fondata su solide ragioni economiche, in un Paese come il nostro che ha sin qui attratto soprattutto immigrati con basso livello di istruzione. Solo il 12% dei nostri immigrati ha ricevuto un’istruzione terziaria, contro il 22% degli altri Paesi UE. Anche dai nuovi Stati membri abbiamo attratto una quota relativamente bassa di lavoratori altamente istruiti (il 15% contro il 28% altrove). Ci sono anche ragioni di equità per privilegiare l’arrivo di immigrati qualificati. Se l’immigrazione coinvolge soprattutto persone poco qualificate, le disuguaglianze nel Paese che li accoglie tendono ad aumentare, perché sono soprattutto i lavoratori meno istruiti a subire la concorrenza dei nuovi arrivati. Se, invece, l’immigrazione è di forza lavoro qualificata, le disuguaglianze nel Paese di destinazione diminuiscono.
Ci sono, inoltre, le quote, con programmazione triennale ed eventuali adeguamenti annuali per evitare ai datori di lavoro di aspettare magari fino a maggio il decreto flussi per quell’anno. Ma c’è anche l’immigrazione fuori quota dei talenti, di cui si è detto, o delle badanti che permettono a molte famiglie di assicurare assistenza a domicilio ad anziani, pagando da un quarto a metà di meno di quanto costerebbero le case di cura. Non si aboliscono i Centri di permanenza temporanea, ma li si rende qualcosa di diverso da un’estensione della detenzione in condizioni igieniche e di salute ancora peggiori di quelle già precarie delle nostre carceri. Non si pretende più che si possano gestire flussi di 300.000 persone all’anno con le “chiamate per conoscenza diretta” della legge Bossi-Fini, ma si creano delle liste a cui il lavoratore straniero che vuole lavorare da noi può iscriversi prima di venire in Italia.
Il sistema a punti
Un modo per gestire in modo efficace queste liste, per stabilire a chi permettere di avere il permesso di soggiorno e a chi no, sarebbe quello di introdurre un vero e proprio sistema a punti. È un modello che sta prendendo piede da alcuni anni anche in alcuni Paesi europei. Dopo la Svizzera, anche Danimarca e Regno Unito, a partire dal 2009, introdurranno un sistema a punti. Tale sistema serve a ottenere tre risultati nello stesso tempo: incoraggiare i flussi di lavoratori qualificati; colmare lacune nell’offerta di alcuni tipi di prestazioni (come per esempio l’assistenza agli anziani); razionalizzare e rendere più trasparenti i criteri di ingresso, inserendoli in un quadro coerente, stabilendo le esigenze prioritarie.
In Canada e in Nuova Zelanda, per esempio, le domande di ammissione inviate dagli immigrati prima di entrare nel Paese vengono accolte in base al loro punteggio in una graduatoria che tiene conto delle loro conoscenze linguistiche, del livello di istruzione, dell’età e della precedente esperienza lavorativa. Sinora, in Italia le quote degli immigrati sono state riempite in base alla data di presentazione della domanda, senza alcuna considerazione per le caratteristiche che incidono sul processo di integrazione degli immigrati e sul loro contributo alla crescita economica e al bilancio dello Stato.
I cittadini europei sono sempre più preoccupati per gli effetti dell’immigrazione sull’accesso al welfare. Un modo per rispondere a queste preoccupazioni senza cedere alle anacronistiche pressioni per chiudere del tutto le frontiere, consiste proprio nel favorire gli ingressi di coloro che hanno minori probabilità di dover ricorrere a prestazioni assistenziali e maggiori probabilità di contribuire fin da subito, trovando facilmente un lavoro, al finanziamento dei servizi pubblici.
Un sistema a punti è più facile da amministrare di una normativa complessa e inutilmente vessatoria per gli immigrati e per chi offre loro lavoro, com’era la legge Bossi-Fini, e inoltre permette di responsabilizzare i datori di lavoro, così come vuole la normativa che sta per essere introdotta nel Regno Unito. Quest’ultima prevede non solo la valutazione delle domande presentate (dall’estero) dagli immigrati, ma anche la sponsorizzazione di un immigrato da parte di un datore di lavoro. La sponsorizzazione può essere un canale soprattutto per facilitare l’ingresso di lavoratori mediamente o poco qualificati, che hanno più difficoltà a integrarsi e nei cui confronti il datore di lavoro sarebbe in questo modo maggiormente responsabilizzato. Ogni impresa riceverebbe, infatti, un rating che tiene conto del modo con cui ha “seguito” in passato casi analoghi. L’idea dell’autosponsorizzazione, invece, sembra largamente manipolabile da chi organizza i flussi dei clandestini e, quindi, rischia di impedirne qualsiasi controllo. Insomma, bene la sponsorizzazione, ma non l’autosponsorizzazione.
Un percorso per l’integrazione
Oltre all’irrigidimento delle procedure nei confronti degli immigrati con bassi livelli di istruzione, e al tentativo di attrarre lavori maggiormente qualificati, in Europa ci si sta muovendo anche in un’altra, importante, direzione: investire nell’integrazione degli immigrati. Da questo punto di vista l’Italia non ha fatto finora nulla. Integrare vuol dire innanzitutto concepire un percorso al termine del quale è possibile acquisire la cittadinanza e il diritto di voto. Il nostro regime di acquisizione di diritti sulla base della cittadinanza dei genitori (jus sanguinis) ci ha portato al paradosso di far votare sull’abolizione dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori persone che sono da due, forse anche da tre generazioni, in America Latina e non figli di immigrati che da anni lavorano e pagano le tasse nel nostro Paese. Nelle linee guida dell’attuale provvedimento sembra esserci la volontà di abbandonare la visione “anti-inclusiva” della legge Bossi-Fini, tornando a un approccio integrazionista: per esempio, con la concessione dei diritti di voto amministrativo agli immigrati residenti in Italia da un periodo di tempo minimo. Anche questo sembra essere un passo nella giusta direzione: per proseguire serve ora un quadro coerente entro cui operare. L’esperienza passata, anche di altri Paesi, insegna che l’inadeguata considerazione di alcune importanti tessere del complesso mosaico migratorio può minare l’efficacia degli interventi.



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