Una realtà complessa
Tempo fa ho assistito a una messa a El Paso, in Texas, lungo il confine fra il Messico e gli Stati Uniti. È stata celebrata in quel terreno asciutto, aspro e bruciacchiato dal sole in cui gli Stati Uniti incontrano il Messico, ricordandoci anche delle migliaia di immigranti messicani che sono morti attraversando il confine negli ultimi dieci anni. Una palizzata di ferro di quasi cinque metri divideva a metà questa comunità di credenti. Circondati dagli agenti della Guardia di confine che, anche con gli elicotteri, controllavano che nessun messicano passasse da questa parte, noi cantavamo e pregavamo. Mi ricordo in particolare dello scambio della pace: la possibilità di toccare il mio vicino messicano solo attraverso alcuni piccoli buchi nella recinzione, mi ha reso dolorosamente cosciente dell’unità che stavamo celebrando e delle divisioni che al contempo sperimentavamo.
Negli ultimi diciotto anni ho avuto a che fare con persone coinvolte nel dramma dell’immigrazione messicana. Ho sentito agricoltori lamentarsi per le loro proprietà rovinate dal passaggio degli emigranti, che lasciano dietro di sé rifiuti di tutti i tipi. Ho parlato con educatori e amministratori ospedalieri sottoposti a una sempre maggiore pressione finanziaria dovuta all’afflusso dei nuovi arrivati. Ho ascoltato i racconti degli agenti di confine costretti a subire il fuoco dei trafficanti di droga. Ho visto leader politici varare programmi a salvaguardia della stabilità dell’economia e alla protezione del bene comune, specialmente dopo l’11 settembre. Ho parlato con i contrabbandieri che, per soldi, guidano la gente attraverso le zone pericolose che costeggiano il confine.
Ma soprattutto ho parlato con gli immigranti e ho sentito centinaia di storie su cosa significhi abbandonare la propria casa, attraversare il confine ed entrare negli Stati Uniti come clandestini. Ho cercato di capire non solo il terreno fisico del viaggio dell’immigrato, ma anche il terreno spirituale delle loro vite di fede.
Nel parlare con questi diversi gruppi di persone di qua e di là del confine, ho capito che ognuno di loro crede di avere precisi diritti: diritto alla proprietà privata, ai posti di lavoro in America, alla sicurezza nazionale, diritti civili o diritto a una vita più dignitosa. Tutte queste richieste sono legittime, ma ho imparato che non tutte sono allo stesso livello e che, da una prospettiva di fede, chi soffre di più merita un maggior ascolto. Gli stessi immigrati, in quanto tra i membri più vulnerabili della società, mi hanno aiutato a vedere che tra i “diritti” in gioco in questo dibattito, i più trascurati sono quelli umani. Questi diritti sono diventati più chiari ascoltando gli immigranti raccontare le loro storie lungo il confine, nei centri di detenzione, negli ospedali, nei centri per i senza tetto, nelle stazioni ferroviarie, nei deserti, tra le montagne, lungo i fiumi e le strade e in tanti altri luoghi in Messico e negli Stati Uniti.
Le loro storie mi hanno aiutato a vedere il viaggio di un emigrante senza documenti come una discesa all’inferno, un viaggio verso “una terra promessa” che l’autore Luis Alberto Urrea chiama “l’autostrada del diavolo”.
Attraverso il confine tra Messico e Stati Uniti
Fino alla conclusione della guerra tra Messico e Stati Uniti nel 1848, e la cessione da parte del Messico del territorio che costituisce ora gran parte degli Stati Uniti del sud-ovest, la gente si spostava liberamente nell’area che corrisponde ora alla California, all’Arizona, al Nuovo Messico, al Texas e al Messico. La zona di frontiera è rimasta relativamente permeabile e i controlli sostanzialmente tolleranti per la maggior parte del XIX e del XX secolo.
Il controllo del confine è diventato sempre più rigoroso e sistematico dal 1924, anno di fondazione della U.S. Border Patrol (una specie di polizia di frontiera), e in particolare dagli anni Ottanta, quando il presidente Reagan dichiarò guerra al traffico di droghe e il confine si trasformò sempre più in una zona militarizzata per far fronte ai potenti e organizzati cartelli dei trafficanti.
In seguito alla svalutazione del peso messicano nel 1983, molte aziende americane hanno approfittato del tasso di cambio favorevole per spostare le loro fabbriche di assemblaggio dagli Stati Uniti al Messico, alla ricerca di manodopera a basso costo. Centinaia di migliaia di messicani, molti dei quali avevano perso la loro terra a causa delle politiche agricole del Messico, si sono spostati a nord per lavorare nelle maquiladoras, fabbriche che lavorano in regime di esportazione temporanea con contratti di subappalto. Durante gli ultimi anni, però, è stato chiuso più di un quarto di questi stabilimenti, poiché le aziende hanno trovato manodopera ancora più a buon mercato in Asia. Centinaia di migliaia di posti di lavoro lungo il confine sono spariti, gettando l’economia messicana in una situazione ancor più critica e rendendo disoccupazione e sottoccupazione la norma piuttosto che l’eccezione.
Negli anni Novanta, sostenuta dal sentimento anti-immigrazione che stava fermentando in California, l’Amministrazione Clinton ha intensificato i controlli, pattugliando fittamente il confine, erigendo muri e palizzate e incrementando l’uso di tecnologia militare, come gli aerei droni (senza pilota), la tecnologia a infrarossi e i sensori di movimento.
Lo scopo era di impedire l’immigrazione clandestina, ma il risultato è stato di spingerla verso le zone più difficilmente controllabili, zone in cui vengono raggiunte temperature di cinquanta gradi all’ombra, in cui si devono percorrere anche più di ottanta chilometri in condizioni proibitive, con qualche tortillas e acqua e scarponi di pelle a tacco alto per difendersi dai serpenti: chi rimane indietro viene abbandonato. Le “guide” sono contrabbandieri, il cui prezzo di listino è di circa 1.800 dollari.
Ogni giorno muoiono emigranti per disidratazione nel deserto, annegamento nei canali, assideramento sulle montagne o soffocamento nei rimorchi: in alcuni luoghi, i casi mortali sono aumentati del 1000%. Un emigrante di nome Mario mi ha detto: “Certo che penso ai pericoli. Ma non ho scelta se voglio continuare a vivere. Il fatto è che nella povertà del Messico io sono già morto; attraversare il deserto mi dà la speranza di poter vivere”.
Se ce la fanno a passare il confine, molti immigrati troveranno impieghi a bassa retribuzione che nessuno vorrebbe, tranne i più disperati. Accettando anche lavori pericolosi ed essendo spesso meno protetti anche nei lavori normali, gli immigrati clandestini sono più esposti agli incidenti sul lavoro. La povertà e la fame sono pistole puntate alla loro schiena che li spingono a lasciare le loro case e ad attraversare il confine. Come mi disse Mario in un campo di detenzione: “Niente è peggio che vedere tuo figlio affamato che ti guarda negli occhi e tu sai che non hai abbastanza da dargli”.
Attraverso i confini della nostra mentalità
Gli emigranti sono spinti dalla povertà economica, attratti dalla speranza di una vita migliore negli Stati Uniti e bloccati da un muro di ferro sul confine. È strano pensare che molti americani hanno salutato con entusiasmo il crollo del muro di Berlino nel 1989, piangendo le circa 250 persone che sono morte cercando di superarlo nell’arco di ventotto anni, mentre molti altri sono rimasti indifferenti alla costruzione di un muro fra Messico e Stati Uniti, nonostante 3.000 emigranti siano morti durante gli ultimi dieci anni mentre cercavano di entrare nel nostro Paese.
Forse i confini più difficili da attraversare sono quelli nelle nostre menti, in particolare i pregiudizi e le avversioni che arrivano dal nostro intimo e che riaffiorano quando incontriamo qualcuno che vediamo come completamente “altro”. Gli immigrati messicani portano con sé alcuni degli stereotipi peggiori della società odierna e sono visti spesso come gente che non paga le tasse, prosciugando i fondi delle comunità locali, mentre spaccia droga, commette crimini e ruba posti di lavoro agli americani. Alcuni mettono gli immigrati perfino allo stesso livello dei terroristi, senza rendersi conto che i terroristi dell’11 settembre sono entrati con visti legali e non dai confini meridionali. Nella mentalità popolare gli immigrati sono percepiti come una minaccia al bene comune e alla cultura americana, anche se qualcuno potrebbe osservare che la cultura originale “americana” è finita a Wounded Knee nel 1890.
Molti immigrati cominciano a interiorizzare alcuni degli stereotipi con cui vengono etichettati dalla società contemporanea: “Ci viene costantemente ricordato che siamo inferiori a tutti – dice Lydia – che siamo poveri, che non siamo istruiti, che non parliamo correttamente, che in un modo o nell’altro siamo meno esseri umani. A volte cominciamo persino a domandarci se anche Dio pensi questo di noi”. La sfida più grande è quindi abbandonare gli stereotipi negativi e considerare invece più seriamente il valore e la dignità personale degli immigrati e i loro personali contributi a questo Paese.
“Il nostro Paese ha affisso due cartelli virtuali sul suo confine meridionale: Si offre lavoro: chiedere all’interno e Non oltrepassare il confine” dice il pastore Robin Hoover di Human Borders. Senza la manodopera immigrata, l’economia degli Stati Uniti rischia di collassare; vogliamo e abbiamo bisogno di lavoro a buon mercato, ma non vogliamo immigrati. Tempo fa il documentario Un giorno senza messicani ha cercato di mostrare come sarebbe l’economia americana senza il lavoro dei messicani. Non ci sarebbero inservienti negli alberghi, lavapiatti nei ristoranti, né giardinieri o manovali, nessuno si occuperebbe dei raccolti nei campi, molte industrie chiuderebbero e vari settori dell’economia sarebbero paralizzati.
Ciò nonostante, a questi immigrati non sono offerte le stesse opportunità e non vengono aperte le porte che furono spalancate ad altri immigrati nelle generazioni precedenti. Invece che ospitalità e apertura, molti immigrati trovano rigetto, ostilità e paura.
Eppure, la maggior parte degli immigrati non porta via lavoro agli americani, poiché svolge mansioni che questi ultimi rifiutano. Gli immigrati, inoltre, non solo non danneggiano l’economia, ma vi contribuiscono con tasse dirette e indirette: nel loro insieme, pagano più di novanta miliardi di dollari in tasse, ma molti di loro, in quanto clandestini, hanno perfino paura di ricorrere ai servizi sociali.
Il valore morale di una società
L’insegnamento sociale della Chiesa insiste sul fatto che l’autentico valore morale di una società si vede da come essa tratta i suoi membri più vulnerabili. Giovanni Paolo II ha sottolineato ripetutamente la responsabilità morale delle nazioni ricche ad aiutare quelle povere. La vera patria di una persona è dove può guadagnare il pane per sé e la propria famiglia.
Mi ricordo di un incontro con Moises a Tijuana: mi ha detto che voleva venire negli Stati Uniti, perché con quello che guadagnava in Messico poteva a malapena mettere del cibo in tavola. La sua ambizione era solo quella di poter provvedere al “pane” per la sua famiglia. Qualche miglia più in là, dall’altra parte del confine, vicino a un famoso albergo, ho incontrato una donna che era venuta fin lì per cercare un tipo di pane “speciale” che non si trovava in nessun altro luogo. Le contraddizioni sotto i miei occhi erano lampanti, così come il drammatico contrasto tra Stati Uniti e Messico, tra Primo e Terzo Mondo.
La Chiesa cattolica riconosce il diritto di una nazione di controllare i suoi confini, ma non lo considera come “un diritto assoluto”, né ritiene che i diritti di sovranità siano prioritari rispetto a quelli umani. Pur ritenendo ideale che ciascuno trovi lavoro nel proprio Paese, la Chiesa insegna che se il Paese d’origine non permette di vivere una vita pienamente umana, le persone hanno il diritto di emigrare.
Ciò non significa che si devono ingenuamente aprire i nostri confini a chiunque, come se non fosse necessario prendere in considerazione anche altri importanti fattori politici e socioeconomici, ma la Chiesa pone la vita umana al centro della discussione. Per quanto riguarda i beni materiali, le frontiere stanno diventando sempre più aperte, ma la stessa cosa non sta accadendo per i lavoratori, come se le merci e il denaro valessero più delle persone e dei diritti umani.
L’Università di Notre Dame sente come dovere morale offrire agli immigrati ispanici le stesse opportunità che contribuì a offrire in passato agli immigrati irlandesi e di altre nazionalità. A questo scopo è nato l’Istituto per gli studi latinoamericani, con l’obiettivo di approfondire tutti i punti critici della presenza dei latinos negli Stati Uniti, in primo luogo sviluppando il loro senso della propria dignità e l’orgoglio per la propria cultura, inclusi gli aspetti religiosi, preparandoli a divenire protagonisti responsabili sia nella società che nella Chiesa degli Stati Uniti.



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