Ho avuto la fortuna di incontrare Don Pierino Gelmini personalmente e più volte. Il primo incontro è stato favorito da Josè Berdini, un ragazzo marchigiano che era stato curato nella sua comunità. Oggi è titolare di un’associazione, la Pars, specializzata nella cura di persone con la doppia diagnosi, malattia psichica e tossicodipendenza; è felicemente sposato e vive con altre famiglie in una comunità alloggio sulle colline marchigiane, dove si prende cura di chi, come lui anni prima, ha bisogno di qualcuno che gli voglia bene. Don Pierino, con la sua passione per l’uomo e la sua fede non solo l’ha aiutato a curarsi, ma è stato determinante nell’avvio della sua attività a servizio degli altri.
Tanti altri come lui, legati a Don Gelmini non da una dipendenza personalistica, ma da una grande riconoscenza, attraverso le Comunità Incontro, hanno riscoperto la libertà di amare, lavorare, costruirsi un futuro, sperare, spesso pregare. Per convincersene basta andare a Molino Silla nel giorno della festa annuale, e ascoltarli quando, ormai usciti dal tunnel della droga, tornano da tutto il mondo per salutare il loro Don, i suoi collaboratori, le persone che ancora vivono in comunità. I loro racconti non sono analisi sociologiche astratte che attribuiscono la tossicodipendenza alla società, alla cattiveria dei politici dell’altra sponda o al capitalismo mondiale. Sono invece racconti che hanno a tema esperienze di vita reali, difficoltà, miracoli di cambiamento. E il cuore di questi racconti non è mai l’aspetto medico e psicologico, che è pure tenuto presente nel rigore che caratterizza la Comunità Incontro. Nella “cristoterapia” di Don Pierino, basata sulla fede in un Dio incarnato che si è fatto carico delle domande più vere dell’uomo, centrale è l’attenzione al chiaroscuro della libertà, concepita come il più grande strumento per uscire dalla droga, per riaprirsi alla positività della vita e, a volte, anche alla fede.
Proprio per questo, perché è la libertà il punto a cui si rivolge Don Pierino, i fallimenti sono inevitabili: perché ogni uomo è fatto per la vita, ma cerca la morte e può ribellarsi fino a diventare malvagio e coprire di calunnie chi vuole aiutarlo.
Non può capirlo solo chi, fingendo solo di curare i tossicodipendenti con il metadone e promuovendo “modiche quantità” di droghe leggere che diverranno elevate quantità di droghe pesanti, non accetta realmente di mischiarsi con il grido dell’umano, come ha fatto don Gelmini fin da quel pomeriggio in piazza Navona in cui cominciò la sua missione.
Per questo non è inevitabile, né giusto, né ragionevole che, a partire da queste calunnie, si cerchi di infangare chi, come don Gelmini, da decenni rischia del suo per il bene di tanti, aspettando la sua riabilitazione dall’esito di lunghissimi processi. La credibilità di Don Gelmini non può essere messa sullo stesso piano di chi, denunciato per furto dopo aver chiesto invano soldi, lo accusa. Essere equidistanti significa sposare l’ignavo menefreghismo dei tanti farisei che non accettano di sporcarsi le mani con il prossimo che ha bisogno.



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