Tra i “Dodici punti per l’Italia” presentati sabato dal candidato premier del Partito Democratico, Walter Veltroni, spicca il tema del sostegno alla natalità. Un tema drammatico, se è vero che in Italia il tasso di fertilità è di 1,35 figli per donna, contro l’1,6 medio europeo e i 2 francesi.

Veltroni propone un intervento complessivo: forte spinta all’occupazione femminile, creazione di una “dote fiscale” (di 2.500 euro, crescente rispetto al numero di figli, decrescente rispetto al reddito) che vada a sostituire il sistema degli assegni al nucleo famigliare attraverso un più esteso utilizzo delle detrazioni fiscali, estendibile anche ai lavoratori autonomi; raddoppio del numero di posti disponibili negli asili nido per assicurare il servizio ad almeno il 20% di bambini sotto i tre anni.

Si tratta di una proposta che, nella sua genericità, appare a prima vista condivisibile, soprattutto perché per la prima volta (almeno nel linguaggio della sinistra italiana) non si fa ricorso alla consueta retorica delle “pari opportunità”, ma si punta dritto al cuore del problema: la natalità in quanto tale.

Una valutazione più attenta mostra però alcuni limiti. La ricerca internazionale sulle politiche di conciliazione famiglia-lavoro e di sostegno alla natalità ha certamente notato significative correlazioni tra spesa sociale, tassi di occupazione femminile e natalità. Ma con maggior chiarezza individua come più utili gli incentivi che riducono i costi di opportunità di avere figli. In particolare: politiche di conciliazione e flessibilizzazione dei tempi di lavoro (in particolare, agevolazioni alla diffusione del part-time); politiche di stabilizzazione del posto di lavoro dopo la maternità (cosa che non accade in Italia per gli atipici e soprattutto per le collaboratrici, che rappresentano una quota elevata di occupati sotto i 35 anni e tra le quali i tassi di fertilità risultano significativamente inferiori rispetto alle donne con occupazione standard); politiche di sostegno monetario alla maternità; servizi alla prima infanzia di qualità.

Esemplare è il caso della Francia. Grazie a una spesa in politiche famigliari del 2,5% in rapporto al Pil (in Italia siamo fermi all’1,1%), il modello francese prevede una tassazione graduata sui carichi famigliari (quoziente famigliare), un sistema finalizzato alla libera scelta per la donna tra lavoro e compiti di cura (con interventi monetari prima e dopo il periodo di maternità), investimenti massicci per la creazione di asili pubblici e privati (lato offerta) e contestualmente contributi economici sia per genitori che abbiano ridotto o cessato l’attività lavorativa a seguito della nascita di un figlio, sia per genitori che debbano sostenere spese per babysitter o asili (lato domanda). Non a caso la fertilità in Francia è cresciuta da 1,78 (1998) a 2 figli per donna (2006).

La proposta di Veltroni, ancorché da verificare nei fatti, appare dunque monca. La “dote fiscale” per i nuovi nati, ispirata al modello “basic income” presente in Germania, è certamente una buona idea, ma per avere effetti significativi avrebbe bisogno di spingersi fino al livello previsto dalla proposta di legge del Forum delle Associazioni famigliari (6-8000 euro per figlio). Ancora, parlare di “più donne occupate” in sé non ha significato: in Germania il tasso di occupazione femminile supera il 70%, ma la fertilità è ai minimi europei (1,35) e in continuo calo. La differenza in Europa la fa il part-time (significativamente molto basso in Germania, ma molto alto in Paesi con tassi di fertilità elevati come Olanda, Danimarca e Gran Bretagna) e un livello altamente qualitativo di servizi alla prima infanzia. Servizi che è giusto trasformare in diritti (come propone Veltroni), ma a patto di sposare un sistema autenticamente pluralista sorretto da adeguati interventi per la libera scelta (di cui non si fa cenno nel programma veltroniano).


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