Nella società democratica, postindustriale e globalizzata, ha acquistato un peso molto importante la differenza culturale. A seconda di come si affronterà l’argomento, l’affermazione della differenza culturale sarà un elemento di arricchimento reciproco o un fattore di discriminazione dell’”altro”, precisamente di colui che è differente e normalmente più debole. L’alternativa sarà dunque tra il contribuire a (ri)costruire la società civile oppure ad atomizzarla, mettendo in pericolo la convivenza in pace e il bene comune. La cosa più interessante è che la differenza culturale obbliga a reimpostare alcuni postulati dell’Occidente, come quello della stretta separazione tra ciò che è pubblico e ciò che è privato, o quello della relazione formale tra democrazia e identità culturali comunitarie.Se le società liberali avevano trovato uno dei propri fondamenti nella stretta separazione tra la sfera pubblica e quella privata, oggi si avverte che i due fattori che sostenevano questo modello, lo Stato moderno e il singolo cittadino, stanno subendo profondi cambiamenti. Da un lato, lo Stato nazionale è immerso in una situazione di globalizzazione politica e soprattutto economico-finanziaria che relativizza la sua funzione classica di ultimo garante della ragione e delle libertà universali in un sistema di democrazia formale. Dall’altro, i cambiamenti imposti dalla differenza culturale portano anche a una revisione dell’immagine del singolo cittadino di fronte allo Stato. Esistono numerose differenze culturali per le quali si raggruppano i cittadini a seguito delle crisi dei meccanismi tradizionali di socializzazione (famiglia, scuola, sindacati). Si fa riferimento alla critica femminista o dei gruppi di contestazione sociale (antiglobalizzazione, ecologismo), alle differenze relazionate con la salute (minusvalenze, infermità croniche, Aids) e ovviamente ai raggruppamenti su base etnica e religiosa. Di conseguenza, la diffusione delle differenze culturali porta a reimpostare la relazione fra identità e cittadinanza o fra identità e democrazia. Per alcuni, la nozione di «cittadinanza» – che risiede nel cuore del sistema politico moderno – deve evolvere e integrare non solo i diritti classici (civili, politici e sociali), ma anche quelli cosiddetti culturali. È significativo che sia nata l’espressione multicultural citizenship, per riflettere un modo di essere cittadino che non si limiti a stabilire alcuni limiti formali, ma che abbia un certo contenuto sostanziale. Altri, invece, sostengono che non si possa aggiungere alcun aggettivo alla cittadinanza appunto per non alterare ciò che storicamente è stata la sua ragion d’essere: la garanzia della piena uguaglianza degli individui, indipendentemente da qualsiasi appartenenza che potesse tradursi in discriminazione. Costoro, perciò, sono più inclini ad approfondire la concezione politica e giuridica della democrazia. Ciò che appare chiaro è che non si considerano risolte le difficili questioni che le differenze culturali, in buona misura radicate nelle identità comunitarie, suscitano sulla concezione moderna della cittadinanza e della democrazia.
È inoltre necessario riesaminare il tipo di razionalità capace di affrontare le sfide sociali, culturali e politiche. Il problema in sé è complesso: da una parte si può notare che a risolvere queste difficoltà non può essere una razionalità meramente tecnica, mentre, dall’altra, si constata che la globalizzazione implica il passaggio a un razionalismo puramente strumentale dei mercati, del consumo e delle tecniche di comunicazione. Questo sviluppo delle tecniche dei mercati e del consumo debilita la capacità “sostanziale” dell’ordine politico di costruire la società civile e l’individuo e, in tal modo, di mediare tra le differenze culturali. Lo spazio della mediazione, che è appartenuto in altri tempi all’idea di Stato-nazione, oggi riflette la tensione tra coloro che continuano a cercare la soluzione nello Stato (repubblicani francesi, liberali anglosassoni) e coloro che postulano lo sviluppo e il riconoscimento delle identità comunitarie (comunitaristi o multiculturalisti). In mancanza di una soluzione convincente, questi ultimi propongono risposte di tipo processuale o dinamico, che dichiarano irrisolvibile il problema e cercano di combinare elementi dell’una e dell’altra prospettiva senza assolutizzarne nessuna: è questa la tesi del pluralismo culturale basato sul dialogo. Secondo Touraine, questo dialogo è possibile soltanto quando «le culture riconoscono, più in là delle proprie differenze, che ciascuna contribuisce all’esperienza umana e che ciascuna è uno sforzo di universalizzare un’esperienza particolare». Affinché sia possibile questo “riconoscimento” occorre ammettere che le esperienze umane hanno un senso e che tal senso è comunicabile fra le varie culture. Anche Habermas insiste sulla necessità che lo Stato secolarizzato accolga culture forti, capaci di produrre e comunicare un senso, mediante un discorso riflessivo e valutativo.
Altro aspetto del dibattito è quello della relazione fra multiculturalità ed etnicità. È superfluo rilevare che non tutte le differenze culturali sono di tipo etnico; tuttavia i gruppi etnici presenti nelle società occidentali sono una fonte importante di identità culturale e di affermazione di differenze.
Quando Hollinger esamina le identità etniche basiche sottolinea che la nozione di cultura non coincide con quella di origine etnorazziale e rivendica il fatto che gli Usa sono uno stato civile e non etnico, per proporre la propria idea di una società nordamericana postetnica. In questo contesto, colpisce il valore positivo che incontra recentemente la categoria di meticciato per superare i limiti di certe impostazioni multiculturali. Si apprezza la categoria di meticciato per superare tanto le società chiuse nella propria concezione culturale o etnica unitaria, quanto le società multiculturali esposte a una schietta giustapposizione di ghetti culturali o etnici. Nella letteratura incontriamo allusioni al meticciato per riflettere in primo luogo un fatto sociale: l’aumento della mescolanza fra persone appartenenti a gruppi etnici distinti, in maniera che la fissazione dei limiti identitari, che dipenderebbero da fattori etnici, si renda più flessibile e permeabile. Secondo Hollinger, una società postetnica non dipenderebbe da nozioni tanto discusse come quella della razza, ma da ciò che egli chiama «affiliazione», esercitata secondo la libera decisione della persona. Altri autori aggiungono, in questo primo livello di constatazione dei fatti, l’evidenza di come la mobilità continua di interscambi etnici e culturali stia crescendo. Di fronte alla prospettiva, che Huntington ha reso celebre, dello «scontro di civiltà», si segnala piuttosto uno spostamento di uomini e comunità che rende di nuovo flessibili i limiti delle identità culturali.
Per rivendicare positivamente il meticciato non basta però riferirsi alla mescolanza effettiva delle persone, e con ciò, delle memorie e delle pratiche sociali. Amselle ritiene che l’uso di questo termine può avere un valore negativo, anche quando si vuole alludere a un fatto positivo: si pensi alle allusioni della stampa francese al carattere meticcio della nazionale di calcio quando vinse il Mondiale del ‘98 o alla pubblicità multirazziale di Benetton. Questo studioso vede il pericolo che tale dichiarazione consacri in realtà la concezione di un poligenismo di razze che successivamente devono unirsi, e così, al di là delle intenzioni, ciò che prevale è l’affermazione di una divisione all’origine, consolidando le barriere delle quali apparentemente si festeggia l’eliminazione. Secondo Arselle, la categoria di meticciato è legittima quando la si depura da tutta la connotazione razziale-biologica: «il meticciato è una metafora che esclude tutte le problematiche di purezza o mescolanza di sangue, e si converte in un assioma per postulare un’indistinzione originaria». Le mescolanze attuali non rimanderebbero a situazioni previe nelle quali si incontrerebbero le componenti etniche ipoteticamente pure, ma si riferiscono ad altre mescolanze anteriori, rimandando così all’infinito l’idea di una purezza razziale originaria, proprio ciò che si vuole superare.
Il dibattito sulla multiculturalità è attualmente fecondo in Occidente. Ne riassumo alcuni punti: appare una critica a quel relativismo culturale escludente, che si era arrivati a erigere in una specie di assioma non questionabile da parte dei difensori estremi del multiculturalismo; si avverte in molti autori un sospetto di fronte alle identità comunitarie forti e si cercano soluzioni nell’evoluzione della dimensione universalista, riscattandola da un laicismo stretto e incapace di dialogare con quelle identità. Da diverse prospettive si rivendica un universalismo che permetta la comunicazione e il confronto fra culture. Alcuni autori non identificano l’universalismo con un insieme di principi e diritti astratti dell’individuo, ma piuttosto con gli uomini e i gruppi che si sono mescolati da sempre e, in quanto tali, sono l’espressione concreta di un’umanità comune; si rimanda alla necessità di un senso dell’esperienza umana sul quale si possano intavolare interscambi che permettano di costruire la realtà di una società comune; si avverte il limite della divisione occidentale moderna fra la sfera pubblica e quella privata; molti avvertono un’oscillazione irrisolta fra il valore di un’identità comunitaria e il valore universale del soggetto individuale e per superarla suggeriscono la dinamica di un processo che alcune volte si descrive come conflittuale e altre come dialogale; la categoria di meticciato acquisisce protagonismo per descrivere situazioni dove si assume come fatto compiuto il mescolamento fra culture ed etnie, e per esprimere l’indistinzione originale e con ciò la piena uguaglianza di tutti gli uomini.
Su quali principi si sviluppa una vera interazione culturale? Il primo è la critica al relativismo culturale. I progetti più ideologici del multiculturalismo si sono appoggiati – come su un dogma fondante – sul carattere inevitabilmente differente di ciascuna cultura rispetto alle altre. Ecco il motivo della nota evoluzione da “la cultura” (al singolare) a “le culture” (al plurale), da ciò che è universale a ciò che è particolare, e della conseguente affermazione del fatto che quella pluralità di posizioni sia irriconoscibile: le distinte culture sono incomparabili fra loro e pertanto pienamente equivalenti nel loro valore.
Il contesto di quel pluralismo esacerbato era quello di un anti-etnocentrismo occidentale, nel nome del quale l’Occidente negava se stesso e metteva in discussione tutti i valori della propria tradizione. Non poche volte, in effetti, il valore delle “altre” culture è stato parallelo a un’autonegazione dell’Occidente e, in una maniera più concreta, della dimensione religiosa o trascendente della tradizione occidentale, tale e come di fatto, storicamente, si è vissuta nella tradizione cristiana.
L’enfasi che il multiculturalismo pone sulle differenze racchiude molte volte non tanto l’affermazione – indiscutibile – delle diversità, quanto la negazione dell’universalità dell’esperienza umana. Non è strano, quindi, che possa crescere negli studiosi l’impressione che si perdano criteri di comparazione delle tradizioni culturali. La maggiore debolezza di quel relativismo è che non considera le condizioni di possibilità dell’affermazione de “le culture” al plurale. In effetti, è totalmente infondata la categoria di alterità o eterogeneità assoluta fra esperienze o culture umane. L’alterità degli altri non è assoluta. Se l’altro fosse assolutamente estraneo non ci sarebbe spazio che per l’opposizione o, al massimo, la giustapposizione, ma in realtà si starebbe andando inesorabilmente a finire verso la violenza come unico modo di relazione con l’altro. Alterità assoluta equivarrebbe a violenza assoluta.
L’altro è sempre altro “io”, altro come me. Riconoscere la propria identità con l’altro è ciò che permette di riconoscere la propria alterità, la propria differenza: è come me, però è distinto da me. Siamo distinti, ma non estranei perché ci possiamo comparare in virtù di un’identità più originale e profonda. Ci riconosciamo entrambi come uomini. C’è un’identità più profonda di tutte le differenze che costituisce il terreno originale per il confronto e per il riconoscimento di ciò che è diverso come tale. Ciò che non è unito nell’origine non può unirsi successivamente. Così, dunque, per poter parlare di differenze e di rispetto delle differenti identità è necessario parlare più radicalmente dell’identità nelle differenze. La relazione fra identità e alterità si sviluppa sul terreno di un’identità originaria che posso non volere o magari non riuscire a definire, ma che devo presupporre sempre.
«Ciò che abbiamo in comune con l’altro non si deve cercare tanto nella sua ideologia, quanto in quella struttura nativa, in quelle esigenze umane, in quei criteri originari per cui egli è uomo come noi». Il terreno di comparazione è l’identità che precede e rende possibile tutte le differenze e con ciò la dimensione universale di ciascuna identità particolare. Tale struttura originale che chiamiamo «esperienza elementare» è il fondamento del dialogo e se la si nega, si nega il dialogo stesso. In effetti, se possiamo comunicare è perché c’è un punto di comparazione, e con questo anche una possibilità di critica.
L’esperienza elementare è un vero principio critico rispetto a tutte le ideologie (culturali, sociali, religiose) che vivono nelle distinte realtà sociali e comunitarie. Proprio perché esiste questo principio critico non tutto risulta indifferente né equivalente nella comparazione delle culture. Tale affermazione non perde il proprio valore per il fatto che tale principio si attui per mezzo di un processo di revisione continua, mediante una tensione alla correzione che si formula come domanda e non come possesso statico. Il dialogo si può fondare, nel senso di dare ragione di ciò che già succede, quando si riconosce quell’esperienza elementare, quell’insieme di esigenze e criteri originali per i quali un uomo risulta uomo. Altrimenti il dialogo semplicemente non esisterebbe. Si vede che tale struttura originale rimane sempre presupposta per il fatto che ci sono relazioni e comunicazioni fra individui e popoli. C’è comunicazione e da ciò consegue che l’ipotetica incomunicabilità mantiene sempre come fondo la comunicazione già effettuata. La condizione di possibilità del dialogo è la dimensione universale dell’esperienza umana.
Affinché il dialogo possa arrivare a buon fine, è necessario che l’apertura senza limite nei confronti dell’altro rispetti un elemento che era implicito in ciò che già è stato detto e che adesso esplicitiamo: l’apertura è possibile solamente per colui che ha coscienza di se stesso. «Non è dialogo, cioè, se non nella misura della mia maturità nella coscienza di me». Per evitare i molti equivoci che circondano oggi il concetto e la pratica del dialogo è imprescindibile che ciascun interlocutore (persone, comunità o la stessa Unione Europea) abbia coscienza di chi è. Quando il dialogo verte sulle questioni che ci interessano, la capacità critica del soggetto implica che entri in gioco il valore della propria tradizione come qualcosa che precede logicamente il dialogo con l’altro. Se non fosse così, l’influsso dell’altro ci trascinerebbe in maniera acritica o si produrrebbe un blocco che irrigidirebbe ciascuna posizione.
Affinché sia possibile un dialogo effettivo è necessario ricevere criticamente la propria tradizione, che nel caso dell’Europa occidentale è la «romanità» come ha spiegato Brague. Il pericolo più evidente quando si trascura questa dimensione critica è che il dialogo si riduca a cercare il consenso su un minimo comune denominatore sprovvisto di qualsiasi affermazione di vera identità. Per contro, un dialogo vero comporta il proporre all’altro ciò che si vive, e l’attenzione a ciò che l’altro vive, per stima della sua umanità e per amore all’altro. Questo non implica accettare compromessi su ciò che si è. A partire da questa concezione di dialogo sarà possibile sviluppare uno spirito di vera democrazia, non formalista, così come un’idea di giustizia non ridotta a meri procedimenti formali e un pluralismo capace di armonizzare il rispetto delle differenze, senza omettere la considerazione di tutti gli aspetti sostantivi delle identità. Si potrà contribuire così a superare i limiti del modello liberale o repubblicano, che corre il pericolo di esaurirsi nelle proprie determinazioni formali, senza rispondere alle sfide prospettate dalle identità comunitarie.
Non possiamo illuderci che il famoso scontro di civiltà diagnosticato da Huntington non arriverà. Non basta neanche il desiderio che non succeda. È necessario contribuire attivamente a porre le condizioni per le quali nessuna violenza destabilizzi il benessere delle società e permetta di vivere a tutti nella giustizia e nella libertà. Com’è possibile contribuire a questo lavoro che è responsabilità di tutti? È necessario un dialogo vero fra noi che siamo diversi, permettendo un’integrazione sociale che non può essere concepita come una pura assimilazione unilaterale nella società già esistente. È necessario piuttosto affermare che l’integrazione vera richiede una interazione, ovvero è necessario un incontro, una relazione reciproca. Questo incontro si ha fra uomini, tradizioni, culture, e non in primo luogo con lo Stato. Nelle società occidentali spesso predomina la tendenza a considerare lo Stato come primo interlocutore di questi processi: tuttavia, l’accoglienza e l’interscambio possono avere luogo solamente laddove c’è un soggetto vivo, con un’identità propria, che lo propone e lo porta avanti, di fronte ad altri soggetti ugualmente vivi. Un tale soggetto avrà apertura e coscienza di se stesso a partire da una relazione critica con la propria tradizione. L’interazione esige questi soggetti vivi, perché l’interscambio accada fra esperienze e culture vive, e lo Stato deve essere soprattutto al servizio di questi soggetti.
Evidentemente sono necessarie misure politiche e legislative di integrazione. Non si può sottovalutare la loro decisiva importanza. Esse devono offrire il quadro normativo e preventivo che favorisca l’interazione, anche in situazioni a volte tanto delicate come la regolazione dell’uso della lingua. Le misure politiche non sono, tuttavia, quelle che possono assicurare, in ultima istanza, che si raggiunga un’interazione autentica e di conseguenza una convivenza pacifica e costruttiva.
Chi rende possibile l’interazione necessaria per integrarsi in una società? Non è lo Stato in quanto espressione astratta dell’universalismo dei diritti e delle leggi e in realtà non lo è neanche la società intesa come ente astratto. Il soggetto adeguato, come reclamava in un certo modo Habermas, è un popolo, un’esperienza umana viva, con la sua tradizione, la sua cultura e i suoi valori. Ciò di cui abbiamo bisogno in verità sono figure umane, personali e sociali, che non temano l’umanità degli altri e che siano coscienti di portare in sé qualcosa capace di sostenere la sfida delle aspettative e delle esigenze di tutti gli altri in quanto uomini, al di sopra delle determinazioni culturali particolari.
Si comprende quindi che l’aporia fra democrazia e identità culturali, così come quella fra sfera pubblica e privata, saranno superate solamente se si abbandona una concezione di democrazia puramente procedimentale-formale, che, quando si combina con l’influenza del pragmatismo strumentale dei mercati, ci priva di un quadro di riferimento valido per sviluppare il lavoro d’interazione culturale. Abbiamo anche la necessità che la democrazia nella quale viviamo sia sensibile alla “composizione” delle culture, delle etnie e delle identità comunitarie, in termini di incontro, se si vuole perfino di amicizia, inserita nell’inalienabile dignità assoluta di ciascuna singola persona.
[2] D. A. Hollinger, Postethnic America. Beyond Multiculturalism, Basic Books, New York 2000.
[3] P. L. Berger, S. P. Huntigton, Many Globalizations. Cultural Diversity in the Contemporary World, Oxford University Press, Oxford-New York 2002.
[4] J. L. Amselle, Vers un multiculturalisme français. L’empire de la coutume, Aubier, Paris 2000.
[5] La questione non può essere esaminata esaurientemente qui e merita un trattamento completo. Rimando a Appunti di antropologia. Individuo-comunità, «Oasis – al-Waha – Nakhlistan» 3, 2006, pp. 109-113.
[6] L. Giussani, Il cammino al vero è un’esperienza, SEI, Torino 1995, p. 124.