Oggi in Italia si torna a discutere pubblicamente di aborto e mi sembra fondamentale che noi cattolici non ci limitiamo a riprendere il discorso là dove lo avevamo interrotto ai tempi della sconfitta referendaria, con gli stessi argomenti e gli stessi toni: sono passati trent’anni, sono avvenute molte cose e non possiamo ignorarle se non vogliamo impantanarci in un dibattito vecchio e soprattutto perdente. Dopo il referendum perso sulla legge 194, che regola l’interruzione di gravidanza, c’è stato un referendum vinto, quello sulla legge 40, che disciplina la procreazione assistita. Questa vittoria ha segnato un rovesciamento importante sul fronte di quelli che oggi sono definiti “temi etici”. È proprio grazie a quella vittoria che possiamo tornare a parlare di aborto; è grazie al dibattito sull’embrione e sul suo statuto di persona che si può mettere in crisi una cultura che tende a fare dell’aborto un fatto “normale”. È dunque necessario fare un confronto tra la sconfitta di trent’anni fa e la vittoria recente per capire cosa sia cambiato e in cosa sia consistita la nuova strategia vincente della Chiesa e dei cattolici.
Ho maturato un giudizio sulla “questione aborto” fondamentalmente in questi ultimi due anni, durante la campagna condotta insieme a Eugenia Roccella contro la diffusione in Italia della pillola abortiva Ru486.
Vorrei innanzitutto ricordare come si è arrivati alla legge sull’aborto. Nel maggio del ‘78 è stata approvata in Parlamento la legge 194; due anni dopo i radicali hanno raccolto le firme per un referendum che ne abolisse alcune parti, facilitando così il ricorso all’aborto: l’inizio della battaglia referendaria sulla 194 è stato identico a quanto accaduto tre anni fa con la legge 40. Dopo l’approvazione della 40, infatti, i radicali e i loro alleati hanno raccolto le firme per un referendum che ne abrogasse alcune parti per eliminare alcuni “paletti” imposti dalla legge. Ma come sappiamo, mentre nell’’80 il mondo cattolico ritenne inaccettabile l’idea di contribuire a difendere e a mantenere una legge da sempre considerata come il peggiore dei mali, tre anni fa decise per l’astensione. L’astensione non fu presa in considerazione, anche se oggi si dice fosse stata proposta da una personalità autorevole come il cardinale Siri. Per evitare di subire il referendum radicale, i cattolici proposero due referendum propri, uno massimale e uno minimale; quello massimale, che vietava sempre l’aborto, non venne ammesso dalla Corte costituzionale.
Il 18 maggio 1981 i referendum su cui si doveva votare erano cinque in tutto, di cui tre proposti dai radicali su altri temi. I due più importanti erano però quelli sull’aborto: uno proposto dai cattolici, che avrebbe reso la legge molto più rigida, e l’altro dai radicali, che invece avrebbe allargato l’accesso all’aborto. Non c’era unanimità intorno alla volontà di fare quel referendum; a questo proposito si può rileggere un brano da Gli anni di Erode di Emilio Bonicelli, un libretto militanteche usammo per quella battaglia.
Queste le ragioni di chi aveva timore di uno scontro referendario, pur essendo decisamente contrario alla legge 194: «Da una parte si fa osservare che un’eventuale sconfitta renderebbe la 194 “intoccabile”, modificabile semmai solo in senso peggiorativo. L’uso del referendum favorirebbe anche la ricomposizione dello schieramento unitario laicista-marxista, provocando un’ulteriore grave emarginazione dei cattolici. A livello politico potrebbe infine determinare fortissime tensioni sociali in una situazione già gravemente dilacerata».
Il referendum è stato fatto, la sconfitta è stata pesante e tutto ciò che era stato previsto da quella parte del mondo cattolico che non lo voleva, si è avverato.
Perché abbiamo perso? Per rispondere dobbiamo capire com’era la situazione italiana prima della 194.
Personalmente – avevo quasi 18 anni – pensavo che l’aborto riguardasse pochissime donne e non credevo alle cifre che venivano pubblicate sull’aborto clandestino. Ricordo un incontro – erano molto violenti allora – in cui si raccontava di una ragazza minorenne handicappata, violentata e rimasta incinta, che si batteva le mani sulla pancia per abortire: ci dicevano che erano migliaia in quelle condizioni. Non ci credevo, mi sembrava una follia: dove erano tutte quelle ragazze minorenni handicappate, violentate e rimaste incinta?
Ritenevo che prima dell’entrata in vigore della legge, pochissime donne praticassero l’aborto in clandestinità, e che dopo la legge, sarebbe stato invece permesso, praticato su larga scala e banalizzato. Questo è vero solo per la parte che riguarda la banalizzazione dell’aborto e il cambiamento culturale che ha investito la società contemporanea e l’ha condotta verso una secolarizzazione che ha messo ai margini il cristianesimo.
Nel tempo ho scoperto che l’aborto, prima della 194, non era rubricato come omicidio, ma secondo il codice Rocco – del regime fascista – era considerato «delitto contro l’integrità e la sanità della stirpe». Non c’era la preoccupazione di sostenere la maternità, ma di tutelare la “stirpe italica”. Le donne denunciate per aborto venivano processate e rischiavano la prigione.
Vorrei ricordare brevemente il processo a Gigliola Pierobon, che pochi di noi seguirono, e che segnò l’inizio della nostra clamorosa sconfitta: era un’operaia, rimasta incinta a 17 anni e abbandonata dal padre del bambino. Temendo soprattutto la reazione dei genitori abortì con il classico ferro, senza anestesia, stesa sul tavolo da cucina; dopo qualche anno venne denunciata per aborto e subì un processo.
Gigliola Pierobon venne “perdonata” dai magistrati perché al tempo in cui aveva abortito era minorenne, e perché la mobilitazione intorno al processo rese difficile ai giudici la condanna. Ci fu dunque un atteggiamento accondiscendente da parte della Corte, al termine di un iter giudiziario durante il quale aveva perso il lavoro ed era finita su tutti i giornali.
Situazioni oggettivamente ingiuste come questa all’epoca le abbiamo sottovalutate.
Le donne morivano di aborto clandestino perché in caso di complicazioni se ricoverate in ospedale potevano essere scoperte, denunciate e di conseguenza processate, con tutto quello che significava subire un processo pubblico per aborto negli anni ‘60 e ‘70. Era una situazione che la maggioranza dell’opinione pubblica riteneva intollerabile.
Ricordiamo tutti le cifre pazzesche sparate al di là di qualsiasi credibilità sugli aborti clandestini in Italia (da uno a tre milioni). Ma quanti erano veramente?
Sempre su Gli anni di Erode, veniva riportato un passo di uno studio considerato autorevole, pubblicato su Medicina e Morale, rivista dell’Università Cattolica, due anni prima che entrasse in vigore la 194. L’autore era Bernardo Colombo, docente all’Università di Padova: «Riconosco il mio scetticismo di fronte a stime che vadano al di là dei 200.000 aborti (clandestini, ndr) provocati all’anno nel nostro paese. Aggiungo che una cifra intorno ai 100.000 mi riuscirebbe più persuasiva».
E noi in quegli anni dicevamo: non ci sono i milioni di aborti clandestini dichiarati da Pannella, ce ne sono solo fra 100.000 e 200.000.
Vi ricordo che quest’anno gli aborti legali in Italia sono stati 130.000, di cui un terzo fatti da donne straniere. In valore assoluto sono addirittura diminuiti, o comunque sono più o meno gli stessi, anche considerando la stima minima di 100.000.
Questo significa che abbiamo fatto una valutazione tragicamente sbagliata della diffusione della mentalità abortiva nel nostro paese: già nel 1976, secondo stime da noi prese per buone, fra 100.000 e 200.000 donne abortivano clandestinamente.
Questo significa che:
1. Era impossibile vincere quel referendum perché tante famiglie erano state già toccate dall’aborto;
2. La mentalità abortiva era già diffusa;
3. Il numero assoluto degli aborti in questi trent’anni è rimasto inalterato o è diminuito (sicuramente rispetto alla punta massima degli anni ‘80).
È altrettanto vero che è diminuita la natalità in Italia e su quanto siano effettivamente diminuiti gli aborti si può discutere – dipende da come si contano – ma i numeri ci dicono che nel ‘78, quando è stata fatta la legge, l’aborto era una pratica ampiamente diffusa in Italia e aveva ferito tante famiglie.
Sono ancora convinta, come allora, che qualsiasi legge che regolamenti l’aborto sia intrinsecamente ingiusta, perché qualsiasi legge che ammetta la soppressione di un essere umano vivente – fosse anche uno solo – è una legge intrinsecamente ingiusta. Non è un giudizio sulla legge 194, ma occorre comprendere i fatti dell’epoca e i motivi per cui abbiamo perso.
È chiaro che, mentre si stava discutendo di legalizzazione dell’aborto, c’era già una grande difficoltà riguardo alla maternità culturale: come ci diceva don Giussani, «il cristianesimo come presenza stabile non c’è più».
Queste cifre sull’aborto, quando ho letto il libro di Bonicelli, mi erano sfuggite e mi ha colpito molto rileggerle adesso perché vedo che trent’anni fa abbiamo sottovalutato il fatto che in Italia l’aborto era già diffuso, la mentalità abortista era già attecchita: la legge ha soltanto portato alla luce gli aborti clandestini perché la gente già abortiva e non potevamo pensare di vincere il referendum in quelle condizioni.
Per quanto riguarda le morti per aborto: nello stesso studio di Colombo viene detto che le donne morte per aborto clandestino erano «alcune decine di casi all’anno». Nel ‘77 in un articolo su La Stampa si affermava: «Nel 1972 sono morte, in Italia per aborto, 43 donne; 409 per complicazioni della gravidanza del parto o del puerperio (che comprendono certamente altri aborti)».
Abbiamo sempre sostenuto che le morti non potevano essere migliaia, come invece diceva Pannella. Ma 43 in un anno vuol dire quasi una alla settimana. Quante ne dovevano morire per farne un’emergenza nazionale? Se in Italia morisse “solo” una donna al mese per Ru486, succederebbe il finimondo. Nel ‘72 ne sono morte 43 e quasi non ce ne siamo accorti, o almeno abbiamo sottovalutato il problema. D’altra parte le donne morte per aborto non erano notizie da prima pagina, ma trafiletti: c’era un clima generale di sottovalutazione.
In quegli anni si viveva un’emergenza “maternità” che noi non abbiamo riconosciuto: a chi avrebbero potuto chiedere aiuto le donne con maternità difficili? I centri di aiuto alla vita e i consultori ancora non esistevano; non ci siamo resi conto delle proporzioni delle maternità rifiutate, degli aborti e soprattutto del fatto che era in corso una vera e propria emergenza nazionale.
Era necessario interrogarci sulla condizione della donna, della madre, sui problemi della maternità, fin da allora.
Non solo: si è sempre accomunato femministe e radicali, considerandole allo stesso modo, e sbagliando, perchè le femministe – un mondo certamente variegato – nella grande maggioranza non chiedevano il diritto all’aborto, ma la sua depenalizzazione, e cioè che le donne che abortivano non dovessero subire dei processi e rischiare la galera.
I radicali invece sono riusciti a fare propria la battaglia sull’aborto, trasformando la richiesta di depenalizzazione in quella di diritto all’aborto. In un clima fortemente ideologico si è arrivati a un duro scontro frontale e alla nostra sconfitta referendaria: ma quando si fa una battaglia su un valore e si perde viene ucciso anche il valore, e così è stato per l’aborto. La sconfitta referendaria ha significato oltre che la legalizzazione anche la legittimazione dell’aborto.
È importante confrontare tutto questo con quanto successo con la legge 40. Vorrei far notare che la legge 40 non solo è intrinsecamente ingiusta come la 194, ma lo è anche integralmente, sempre dal punto di vista cristiano. La 194 prevede infatti alcune parti espressamente a tutela della maternità, mentre per i cattolici una legge sulla fecondazione extracorporea dovrebbe avere un solo articolo: non si fa la fecondazione in vitro. Tutte le tecniche di fecondazione artificiale extracorporea sono inaccettabili per noi.
Eppure stavolta abbiamo scelto una strategia totalmente diversa rispetto alla 194. Anche sulla procreazione medicalmente assistita e sulla ricerca degli embrioni c’era un vuoto normativo – così come sull’aborto trent’anni fa – ma il fenomeno non era rilevante dal punto di vista numerico: le persone toccate dal problema della fecondazione artificiale non erano 100.000 o 200.000 all’anno – come nel caso dell’aborto – ma solo alcune migliaia.
Il fatto che le persone direttamente coinvolte non fossero molte ha permesso di giudicare i fatti con maggiore distacco: la gente si è ritratta davanti a queste nuove tecniche, ha provato un enorme disagio, si è chiesta dove tutte queste manipolazioni ci stessero portando e alla fine ha preferito astenersi dal voto referendario, seguendo le indicazioni della Cei.
Abbiamo sostenuto in modo convinto che la legge 40 non era una legge condivisibile dai cattolici, ma abbiamo anche parlato di male minore e di miglior compromesso possibile. Eppure sappiamo che la legge 40 dal punto di vista abortivo è peggiore rispetto alla 194: per ogni “bimbo in braccio” ci sono circa nove embrioni soppressi che non si possono certo considerare aborti naturali, o non voluti. Sono aborti programmati, intrinseci al metodo; è un prezzo standard che si è coscienti di dover pagare.
Di fronte alla grande aggressività che c’è stata dal fronte opposto, dagli oppositori della legge 40, stavolta non abbiamo fatto muro contro muro, ma abbiamo scelto l’astensione. In questo modo è stato possibile evitare ciò che si era verificato con la battaglia sulla 194, cioè l’isolamento dei cattolici. C’è stato uno “scisma laico”: mentre nel 1981 i cattolici erano divisi fra chi ha sostenuto la 194 e chi vi si è opposto, al referendum del 2005 sono stati i laici a essere divisi. Abbiamo vinto la battaglia referendaria cercando un compromesso alto, senza rinunciare alle questioni importanti e, soprattutto, continuando a dire tutta la verità, cioè che la legge non ci apparteneva.
Con questo non si vuole colpevolizzare nessuno riguardo alle scelte fatte trent’anni fa (se lo facessi, dovrei prendermela prima di tutto con me stessa): è troppo facile giudicare dopo, a cose fatte. È solo un’analisi di quello che è successo.
Veniamo al lavoro che ci aspetta sull’aborto e sulla legge 194. Quando ho scritto un mese e mezzo fa che la 194 «nel suo “genere” è una buona legge», ho avuto attacchi e critiche da parte di alcuni che temevano che avessi cambiato idea. A scanso di equivoci, ripeto: qualsiasi norma che legalizzi l’aborto è intrinsecamente ingiusta, anche la più restrittiva. Ma sfido chiunque, di fronte alle leggi che ci sono nel mondo, a trovarne altre che permettano, come la 194, di intervenire efficacemente per diminuire il numero degli aborti. Demonizzarla senza conoscerla e senza confrontarla con le altre leggi europee non solo non è intelligente, ma soprattutto non è utile. Se ci impegniamo per un lavoro comune e trasversale rispetto agli schieramenti politici attuali possiamo proporre delle battaglie importanti (uno slogan: aborto zero entro dieci anni), individuando punti di lavoro concreti su cui sia difficile tirarsi indietro, anche per chi la legge l’ha fortemente sostenuta e continua a sostenerla, ma è d’accordo che l’aborto è un male. Diminuire il numero di aborti è un obiettivo condivisibile. Dobbiamo cercare di cambiare il clima politico-culturale in modo tale che, in futuro, potremmo anche migliorare la 194, all’interno di rapporti più sereni fra i sostenitori e oppositori.
In diversi punti la legge 194 permette di intervenire per diminuire il numero degli aborti.
1. Non è basata sull’autodeterminazione della donna. La legge svedese ad esempio lo è, quando dice che fino a 18 settimane di gravidanza la donna può abortire su richiesta, “senza dover fornire motivazioni”. La 194 invece, propone una casistica e pretende la valutazione e la certificazione di un medico. Proprio per permettere di discutere le motivazioni che spingono ad abortire, dà molto spazio al colloquio con le donne e prevede un periodo di riflessione – sette giorni – fra la concessione del certificato per abortire e l’intervento. Avere uno spazio in cui inserirsi per incontrare le donne e per ascoltarle è fondamentale: è questo il momento in cui lavorano i volontari dei “Centri di Aiuto alla Vita”. È questo il motivo per cui stiamo lottando contro la pillola abortiva Ru486, sinonimo di “aborto fai da te”, un modo di abortire in cui incontrare le donne diventa impossibile. Certamente la 194 è una legge ipocrita, perché è basata su un compromesso: si può applicare in maniera molto restrittiva o molto allargata, sta a noi l’intelligenza di farla applicare correttamente.
2. La 194 proibisce gli aborti tardivi. Negli articoli 6 e 7, dice che dopo i 90 giorni si può abortire solo per grave pericolo di salute e di vita per la donna. Non solo: se il feto ha possibilità di vita autonoma e la donna è in pericolo di vita (non di salute), allora l’aborto è vietato: si può indurre il parto pretermine cercando di salvare madre e figlio.
Quindi la legge 194 dà un criterio per vietare gli aborti tardivi oltre un certo periodo della gravidanza, criterio che va tradotto in limite preciso rispetto alle settimane di gestazione. Su questo punto non è difficile trovare consensi trasversali rispetto agli schieramenti tradizionali: un esempio viene dalla Lombardia, dove l’amministrazione sta cercando di rendere omogeneo in tutta la regione il limite oltre il quale non abortire.
Questo tipo di aborti è percentualmente basso rispetto al numero totale, ma limitarli al massimo, oltre che moralmente è importante dal punto di vista della mentalità comune, perchè sono tutti aborti eugenetici. Una gravidanza non voluta viene interrotta all’inizio, non si aspetta il quinto mese: gli interventi abortivi tardivi si fanno perché certe diagnosi prenatali che individuano malformazioni o anomalie del feto, si possono effettuare solamente a gravidanza avanzata, intorno alla diciottesima settimana.
3. A questo punto è importante spiegare che la 194 non è una legge eugenetica. È una delle poche, forse l’unica al mondo, in cui non si abortisce se il feto è malformato, ma se la malformazione del feto causa gravi problemi di salute fisica e psichica alle donne. È chiaro che questa formulazione lascia molto spazio ad ambiguità – ad esser generosi. È un dato di fatto che il testo di legge non permetta di abortire presentando semplicemente una diagnosi di malformazione del feto, come accade in quasi tutti i paesi del mondo. Se è la prassi ad essere eugenetica – come purtroppo lo è – sta a noi cercare di intervenire per correggerla. In Svezia, dove le donne abortiscono su semplice richiesta (cioè senza casistica e senza motivazioni) fino a 18 settimane di gravidanza, il 30% di quelle a cui viene diagnosticato un figlio down, lo tiene. Da noi lo fa solo l’1%, ma la motivazione è chiara: in Svezia ci sono forti politiche di sostegno alle famiglie con portatori di handicap. Sempre a questo proposito, siamo spesso accusati di ipocrisia, perché con la legge 40 è proibita la diagnosi preimpianto degli embrioni prodotti in laboratorio, per individuare quelli portatori di malattie genetiche, mentre invece con la 194, si può abortire se il feto in pancia è malformato. Ma questa affermazione non è corretta.
La legge 194 non è eugenetica nel testo, ma nella prassi, come abbiamo tentato di spiegare: dobbiamo esigere l’applicazione corretta della legge; per esempio con un controllo a posteriori per conoscere dalle autopsie dei feti quanti effettivamente avevano la malformazione diagnosticata e, magari, anche cercare di seguire l’evoluzione della patologia denunciata dalla donna al momento in cui ha richiesto l’aborto per motivi di salute psichica. Ma neppure la legge 40 è eugenetica. Dopo il fascismo in Italia non sono state introdotte normative eugenetiche. Ed è bene chiarire che qualsiasi selezione di persone su base genetica si deve definire eugenetica, anche se fondata sulla libera scelta individuale e non su un’imposizione autoritaria.
La Legge 40 non permette di scegliere i figli, non consente di stabilire di chi essere genitori, ma è stata fatta per dare alle coppie infertili un’opportunità in più, aiutandole ad avere dei figli con le nuove tecniche. La legge 40 non è stata pensata per scartare i figli difettati e scegliere quelli sani, tanto è vero che non prevede l’accesso alle tecniche di fecondazione in vitro a coppie portatrici di malattie genetiche, ma solo a coppie infertili. È per questo motivo che non prevede neppure l’analisi preimpianto: chi è portatore di malattie genetiche ma è fertile non può avvalersi delle tecniche di fecondazione in vitro e quindi non ha bisogno della diagnosi preimpianto (che ovviamente si può fare solo sugli embrioni prodotti in laboratorio).
Viene spesso contestato che, se non si fa la diagnosi preimpianto per individuare gli embrioni malati, poi li si “deve” abortire: chi dice questo deve ammettere pubblicamente che tutti i disabili vanno abortiti e che è ovvio che un disabile venga abortito. Si dica espressamente che i disabili hanno una qualità della vita tale per cui non vale la pena che nascano, per cui è naturale che vengano abortiti. E chi sostiene questo lo deve dire e mettere per iscritto, formularlo come articolo di legge e risponderne davanti all’opinione pubblica.
Quindi la legge 40 e la legge 194 sono entrambe coerentemente non eugenetiche. Chi vuole cambiare l’una si prepari a cambiare anche l’altra, passando per il Parlamento.
4. La legge 194 non permette di abortire in cliniche private. Non ci riferiamo a cliniche convenzionate con le Asl, ma a strutture dove l’aborto è una prestazione a pagamento, allo stesso modo di uno studio dentistico. In Italia perciò non c’è business intorno all’aborto, e quello sulla contraccezione è limitato alle vendite in farmacia: chiaramente chi realizza guadagni sugli interventi abortivi, non è interessato alla loro prevenzione, né tantomeno si pone come obiettivo l’aborto zero. L’Italia infatti è l’unica nazione al mondo in cui non c’è la Planned Parenthood, una potente organizzazione non governativa che si occupa di aborto e contraccezione e che gestisce cliniche diffuse in tutto il mondo, sponsorizzate e finanziate da agenzie Onu come, ad esempio, l’Unfpa. Il tasso di abortività in un paese, insomma, non dipende solamente dalle condizioni richieste per accedere ad un’interruzione di gravidanza, ma anche dalla presenza – nella normativa che riguarda l’aborto – di una parte preventiva e dissuasiva e dal rapporto con le strutture private. In Spagna e in Polonia, le condizioni richieste per abortire sono sostanzialmente simili. Ma la normativa polacca dà grande spazio alla parte di prevenzione degli aborti e di sostegno alla maternità, a differenza di quella spagnola. In Spagna, inoltre, il 98% degli aborti avviene in cliniche private. Il risultato è che gli aborti in Polonia sono circa duecento l’anno, mentre quelli in Spagna quasi centomila, in continuo aumento.
Da ultimo, è bene precisare che non è vero che gli aborti diminuiscono laddove è diffusa la contraccezione: un medico di Trento lamenta il fatto che in Italia solo il 18% delle donne usa la pillola contraccettiva e che le italiane non usano altri mezzi a lungo termine come, ad esempio, la spirale.
Che cosa ha determinato quest’unicità italiana – aborti diminuiti e al tempo stesso scarsa diffusione della contraccezione chimica (consideriamo il paragone ad esempio con la Francia, dove, con una legge molto simile a quella italiana, gli aborti nel tempo sono aumentati e non riescono a scendere al di sotto di 200.000 all’anno, la contraccezione è molto diffusa, e anche la pillola del giorno dopo, che è a disposizione gratuitamente nelle scuole)?
Il dato evidente è che in Italia in tutti questi anni la struttura familiare ha sostanzialmente resistito, nonostante vari segnali di crisi che pure si sono fatti sentire, come l’aumento dei divorzi e delle convivenze. Nel tessuto sociale, la cultura cristiana non è ancora scomparsa, è riuscita a sopravvivere nella preferenza per il matrimonio e nella forza dei rapporti familiari.
Questa è la peculiarità che fa dell’Italia un unicum, una nazione all’avanguardia rispetto alle altre occidentali, nelle quali il processo di secolarizzazione ha portato a una forte disgregazione dei legami familiari, con tutte le conseguenze che ben conosciamo.
Concludo quindi dicendo che il muro contro muro non giova in questa situazione perché non vogliamo compattare il mondo laico contro di noi. Possiamo lavorare sugli spazi lasciati dalla 194, dobbiamo difendere assolutamente la 40; siamo all’avanguardia nel mondo occidentale e dobbiamo essere consapevoli di questo: abbiamo fatto benissimo a scendere in piazza con il Family Day, perché la struttura familiare ha finora retto in Italia ma chiaramente non possiamo vivere di rendita.
Allegato a «Il Sabato», 21 marzo 1981.
N. 1 e 2 del 1976