Dott. Frigerio, che conclusione possiamo trarre dalla lettura dei dati diffusi dal ministero?

Certamente possiamo dire che dopo l’impennata di degli anni ‘80 e ‘90 il numero di aborti si è stabilizzato intorno alle 130mila unità l’anno, mentre in quel periodo si arrivava a punte molto maggiori, superando anche i 200mila l’anno. Nel rapporto di quest’anno registriamo addirittura un leggero calo delle interruzioni di gravidanza, ma tutto sommato c’è una sostanziale stabilità del dato relativo all’abortività con un nota bene: l’interruzione volontaria di gravidanza diminuisce nelle donne italiane mentre aumenta tra le donne straniere. Questo la dice lunga sulla necessità di mettere in atto anche gli aspetti più trascurati della legge 194, cioè quelli che nell’atto di indirizzo della regione Lombardia prevedono il triage, cioè un percorso di valutazione e accoglienza secondo determinati criteri e linee guida tese a evidenziare le criticità che possono essere affrontate anche da soggetti privati e non profit (onlus, volontariato e Cav) per aiutare le donne in difficoltà. Ciò che è contenuto nell’atto di indirizzo della Regione Lombardia non è altro che la declinazione esplicita di ciò che è contenuto nell’articolo 1 della legge 194, anche se la Regione in questo caso è arrivata anche a trovare nuove risorse economico finanziarie per attuare quelli che sono gli aspetti postivi della 194.



Dai dati non sembra emergere una relazione tra il tasso di abortività e i medici che praticano l’obiezione di coscienza (ad esempio in Puglia il tasso è molto alto, al pari dei medici obiettori). È giusto affermare che l’obiezione di coscienza non limita la messa in pratica della 194?

Direi di sì, se guardo alla realtà bergamasca posso dirle che da noi nascono 4227 bambini all’anno e vengono praticati poco meno di 500 aborti all’anno ai sensi della legge 194. Presso l’ostetricia di Bergamo lavorano 24 medici strutturati di cui 4 sono non obiettori e praticano aborti: sono più che sufficienti per il tipo di casistica. Le interruzioni di gravidanza rappresentano circa il 10% del numero dei parti, a differenza di altri ospedali come il San Carlo di Milano dove addirittura il numero degli aborti supera quello dei parti. Direi che rispetto al totale del numero dei parti in Italia (che sono circa 500mila l’anno) sappiamo che le interruzioni si attestano intorno a 127mila si capisce che non è necessario un numero elevato di medici non obiettori per dare soddisfazione alla legge 194.



Come giudica il dato dell’aumento dei medici obiettori?

Personalmente ritengo che sia naturale per i medici essere a favore della vita: non esistono medici che teorizzano di essere a favore dell’uccisione del nascituro. Al massimo lei può trovare chi invoca una ragione di ordine sociale per praticare l’aborto, come per esempio evitare che ci sia un ritorno alla clandestinità. Sul perché praticare l’aborto, come sull’obiezione di coscienza, ciascuno ha dei motivi specifici e personali: anche l’obiezione di coscienza è variegata e polimorfa nelle sue motivazioni. Ritengo quindi che, dati alla mano, non serva un elevato numero di medici non obiettori per far fronte alla richiesta di interruzione di gravidanza, come anche sono convinto del fatto che un medico operi sempre per la vita e quindi, anche in ostetricia e ginecologia, trovi la maggior realizzazione nella difesa della vita del nascituro che è il paziente più piccolo e indifeso che si possa assistere. Quindi non trovo strano l’aumento del numero dei medici obiettori, le ripeto, credo sia nella natura stessa del medico essere “pro-life” e sono convinto che anche i medici che praticano la 194 non siano “pro-aborto”, ma lo considerino dal loro punto di vista un male necessario.



Nel documento sono inseriti dati riguardanti gli aborti effettuati con la Ru486, come giudica questa metodologia per l’interruzione di gravidanza?

Male, male, malissimo! Ho pubblicato insieme ad altri colleghi pochi giorni fa sulla rivista ufficiale della Sigo (la società italiana di ginecologia e ostetricia) una lunga analisi in cui si vede che questa metodologia di aborto è più pesante sia in termini fisici per la paziente che per il sistema sanitario. Le pazienti che praticano questo tipo di aborto vanno spesso incontro a forti emorragie, nausee, crampi. Tenga presente che a questo farmaco va associata la somministrazione di prostaglandine che hanno diversi effetti collaterali. Si deve ricordare che in poco meno del 10% dei casi le pazienti devono ugualmente ricorrere all’aborto chirurgico e quindi questo richiede un’organizzazione sanitaria per certi versi più costosa. L’efficacia è minore rispetto all’aborto chirurgico e il fardello psicologico della paziente è ancor più grande. Questi sono i dati che emergono dall’analisi delle casistiche internazionali: non è quindi una metodica da raccomandarsi. Senza considerare, poi, il fatto che questo graverebbe sui pronto soccorsi perché è molto alto il numero delle pazienti che ritornano spaventate dall’emorragia (circa il 30%) e tutte le volte che una paziente torna al pronto soccorso è necessario fare l’ecografia, l’esame del sangue, una visita ginecologica, rassicurare la paziente e verbalizzare il tutto. Considerando che questi ritorni possono essere più d’uno è evidente anche il costo sociale che viene poi a gravare su tutti. Dall’analisi dei dati, insomma, il rapporto costi/benefici è totalmente sfavorevole. Io credo che non sia la strada giusta da seguire.