Entra oggi in vigore la legge spagnola che dice sì alla cosiddetta “morte dignitosa”: si tratta di un vero e proprio testamento biologico, o è qualcosa di diverso? E qual è il suo giudizio su questa legge?
La legge spagnola è una legge sul testamento biologico. Si dà, infatti, al cittadino la possibilità di raccogliere le volontà anticipate in merito al proprio morire, affinché esse vengano applicate in caso di perdita della capacità di intendere e di volere. Chi compila il testamento biologico è, però, una persona in buona salute e ignaro della malattia che potrà colpirlo e delle terapie alle quali dovrà sottoporsi. Inoltre, il medico – presente alla firma del testamento biologico – non è lo stesso che ne applicherà i contenuti. Si tratta, allora, di un documento che per sua natura è generico, ambiguo e pertanto inaffidabile. Per queste ragioni, ma non solo, non condivido l’ipotesi stessa di una legge sul testamento biologico e ritengo che sia del tutto inutile se pensato come “lo strumento” per evitare l’accanimento terapeutico, ovvero il perseverare in terapie sproporzionate rispetto alle condizioni del paziente. Non accanirsi sul paziente è un dovere del medico, contemplato anche nei Codici di deontologia medica. E’ evidente che il concetto di “accanimento terapeutico” che si vuol fare passare con il testamento biologico è un altro. E, infatti, nel dibattito attuale l’accanimento terapeutico viene equiparato a una generica “sospensione delle cure”, che comprende non solo le terapie sproporzionate ma anche i mezzi di sostegno vitale (ossigenazione, alimentazione, idratazione) e le cosiddette “cure palliative”. In questo modo, con un testamento biologico, non si evita l’accanimento terapeutico ma si scivola in modo inesorabile verso l’eutanasia per omissione, sottraendo al paziente l’unica possibilità di dare vera dignità al morire ovvero l’assistenza e l’alleviamento del dolore non solo fisico, ma anche psicologico, spirituale e sociale. Tanto è vero che la legge spagnola vieta l’eutanasia attiva, ma si guarda bene dal fare riferimento all’eutanasia per omissione.
È sempre difficile, per chi non è esperto in questa materia, distinguere tra le diverse definizioni: qual è sostanzialmente, a suo modo di vedere, la differenza tra testamento biologico e programmazione delle cure?
Ben diversa dal testamento biologico è la cosiddetta “programmazione anticipata delle terapie”, quando già il soggetto è malato, le opzioni terapeutiche sono note e le decisioni vengono prese nell’ambito della relazione medico-paziente. D’altra parte nella relazione medico-paziente basata sull’alleanza terapeutica – che è, invece, inesistente nel momento della redazione del testamento biologico – l’obiettivo comune delle parti in causa è di agire l’uno nel migliore interesse dell’altro e il dialogo e la comunicazione diventano gli elementi indispensabili perché questa alleanza si crei. E’, allora, fondamentale che il paziente esprima le proprie aspettative in relazione alla malattia e, nel caso in cui sia in condizioni irreversibili, alla dignità del proprio morire. Anzi, il coinvolgimento del paziente nella gestione della malattia e la personalizzazione (laddove possibile) degli schemi di trattamento e dei protocolli assistenziali divengono gli obiettivi da perseguire. Se è, però, fondamentale il coinvolgimento del paziente e il rispetto delle sue scelte, è altrettanto fondamentale il rispetto della libertà del medico di agire in scienza e coscienza e nella tutela di quel bene che gli è stato affidato: la vita del paziente.
Un ruolo fondamentale, riguardo al modo in cui accompagnare i malati terminali, è giocato dalle “cure palliative”: qual è l’importanza di queste cure, e a che punto sono gli studi e gli investimenti in questo campo?
L’eutanasia per omissione o l’eutanasia attiva non sono l’alternativa all’accanimento terapeutico: tra queste due situazioni estreme vi è la strada della cura che comprende l’accompagnamento del malato, il sollievo dal dolore fisico e il sostegno umano nell’esperienza della malattia e del morire. Le cure – tra cui anche quelle palliative, il cui scopo è di alleviare i sintomi (primo tra tutti il dolore) – sono sempre efficaci e sono la risposta non solo alla possibile inefficacia delle terapie ma anche alla richiesta di eutanasia, invocata come via d’uscita per una situazione considerata troppo gravosa e dolorosa. Dove non si può più guarire, si deve continuare a curare. Ed è proprio l’attenzione alla cura a non essere sufficientemente sviluppata in Italia, ove mancano efficaci reti di assistenza domiciliare, interventi a sostegno delle famiglie dei malati, hospice e strutture per la lungodegenza, personale sanitario adeguato.
Ci può spiegare che cos’è l’ “abbandono terapeutico”? Perchè e in quali casi i malati incorrono in questo rischio?
L’abbandono terapeutico, ovvero non essere più soggetti di terapie o – laddove queste non sono più efficaci – di cure, è il vero rischio che oggi corrono tanti malati anche in Italia. Anzi, il modo in cui è stato condotto, in questi ultimi anni, il dibattito sul fine vita sta ipertrofizzando ancora di più la logica della resa e dell’abbandono, della rimozione della sofferenza e della morte. La sofferenza, la mancanza di senso, la disperazione, non si combattono eliminando il sofferente o chiedendogli di farsi da parte. La vera risposta è la rimozione del dolore, il sollievo della sofferenza e la lotta alla solitudine.