Dalla rivoluzione armata, dall’ideologia totalizzante che diventa odio, al ritorno alle piccole cose. La sua piccola rivoluzione, Leonardo Marino, la fa oggi con le crêpes e i panini. Ci mette una cura incredibile, un’attenzione certosina nello spalmare l’impasto sulla piastra rovente. Ci vuole il tempo che ci vuole, ma i ragazzi fanno la fila volentieri, davanti al suo celebrato chiosco, a Bocca di Magra. Un po’ mare – e che mare, nelle Cinque Terre – e un po’ fiume, già Liguria, ma ancora un po’ di Toscana, con all’orizzonte le Alpi Apuane bianche di marmo che sembrano innevate anche in piena estate. I ragazzi si passano la voce, è il posto giusto dove mettere qualcosa di buono nello stomaco, prima della discoteca. Ma non tutti sanno che quel gestore di poche parole dai capelli crespi e bianchi, è il pentito dell’omicidio Calabresi, l’unico reo confesso di quell’orribile delitto, avvenuto il 17 maggio 1972, in una Milano che mentre faceva ancora i conti con le ferite di Piazza Fontana, inaugurava il decennio buio degli anni di piombo. «Qualcuno invece sa chi sono e mi fa delle domande. Gli dico di ragionare con la sua testa. Di non andare dietro alle mode, alla massa, alle ideologie. Di rispondere alla propria coscienza».



Sono 40 anni dal ’68 e Leonardo Marino, il suo ’68, lo racconta così: «Ero un operaio di Mirafiori. Non avevo una preparazione ideologica, ma certo un’ansia di riscatto, io come i tanti approdarono dal Sud con il boom economico. Quel movimento – ricorda – ebbe un ruolo importante nella mia vita, significò prendere coscienza della mia condizione, per me come per tanti altri. E questo fu un bene». Poi, però, venne il momento dei cattivi maestri, «quelli che gettano la pietra e nascondono la mano. Di loro non ha pagato nessuno». La presa di coscienza individuale divenne “movimento di massa”, l’ansia di giustizia si fece violenza. «Ma la violenza non deve mai prevalere. Serve il confronto, anche aspro, ma senza imboccare strade da dove poi è difficile uscire, che hanno visto morire poliziotti, giornalisti, magistrati, politici. Meglio pensarci prima». Non parla volentieri, Leonardo Marino, di quella terribile vicenda che lo vede contrapposto, da anni, a quello che un tempo fu il suo grande amico, un faro per la sua vita, tanto da dare al suo primo figlio il suo stesso nome, Adriano. «La mia storia pubblica – dice – si è conclusa con la sentenza definitiva». Preferisce non attaccarlo apertamente, Sofri, anche se difendere la sua verità sull’omicidio Calabresi lo mette per forza di cose in rotta di collisione con l’ex leader di Lotta Continua, in carcere in seguito alle sue accuse. Ma l’ombra dell’errore giudiziario che viene – a volte esplicitamente a volte meno – evocata in continuazione, proprio non l’accetta: «Errore giudiziario? Otto processi, nove, ho perso persino il conto. La revisione, l’appello alla Corte di Strasburgo. Tutti questi giudici sono parte di un complotto?».
 



Ma lui preferisce darsi alla “sussidiarietà delle crêpes”: un impegno faticoso, sia chiaro, il chiosco è aperto (e frequentato) fino all’una di notte. D’estate fino alle due. E quando lo Stato, la politica, smettono di essere tutto nella mente di un uomo, l’umanità rispunta impetuosamente dalle cose apparentemente più banali eppure cariche di una dignità impensabile. «Io sono tranquillo, lavoro per vivere». La sua vicenda umana Marino l’ha già raccontata in un libro, “Così uccidemmo il commissario Calabresi”, nel quale spiega bene il pessimo ruolo che nella sua vita esercitarono i cattivi maestri: «Ero convinto, come tutti, che l’anarchico Pino Pinelli fosse stato ucciso nella questura di Milano da Calabresi o comunque per ordine di Calabresi. La campagna di stampa che fu fatta da Lotta Continua contro Calabresi servì per far capire alla massa che quello era l’obiettivo da colpire. Ci voleva un’avanguardia organizzata, preparata per colpire». Ma da sola non sarebbe bastata: «Fondamentale e determinante, nel creare in noi questa convinzione, questo odio – ricorda -, fu l’atteggiamento dei grandi nomi della cultura del tempo. Non passava settimana che L’Espresso non pubblicasse pagine intere su Calabresi, contro Calabresi. Lo attaccavano a fondo L’Unità, Vie Nuove, l’Avanti!. Leggevamo quegli articoli, e non era come leggere Lotta Continua, di cui sapevamo che era un foglio di propaganda, e che, per fare propaganda, poteva anche esagerare un po’. Il vedere le stesse cose scritte sui giornali borghesi, sui grandi quotidiani, ci faceva dire: “Ma allora è tutto vero!”». Fu proprio questo alla fine, spiega nel suo libro Leonardo Marino, a indurlo ad agire, quel tragico mattino di 35 anni fa. «Leggere quei nomi sotto un appello che chiedeva l’allontanamento di Calabresi dalla polizia e dei giudici che lo avevano assolto dalla magistratura, e che definiva apertamente il commissario “assassino di Pinelli” ebbe per tutti noi un’importanza enorme. Come se, togliendo di mezzo lui, si fosse fatta la massima operazione di giustizia».
 



I maestri buoni, invece, faranno irruzione, nella sua vita, molto dopo. Il più importante, un sacerdote di Cl della zona, un prete dal cuore grande che se n’è andato molto presto, si chiamava don Alberto Zanini. Morì sedici anni fa in un incidente in montagna, accompagnando i suoi ragazzi. Gli volevano bene in tanti. Ogni anno, il 20 marzo, all’anniversario della morte, la chiesa di Monterosso è piena: «Era professore di religione al liceo di Sarzana – ricorda Marino -,prese tanto a cuore i miei figli, ben sapendo che non erano battezzati, e questo mi colpì. “Gesù vuole più bene a voi, gli altri sono già suoi”, diceva». Lo coinvolse pian piano, rispettando la sua volontà, a parte qualche garbato stratagemma. «Mi disse “Ci sono dei ragazzi da accompagnare, dammi una mano”. Così, nel santuario di Monterosso, conobbi don Bozzo, un sacerdote dal quale poi decisi di confessarmi ». Spiega Marino: «L’affetto che usava per i miei figli risvegliò dentro di me la fede inculcatami da mia madre e dai salesiani. Il seme prima o poi germoglia, ti resta dentro che le cose brutte o non si fanno o si confessano. Pian piano decisi di togliermi il peso che avevo da quel tragico mattino del 17 maggio di 36 anni fa, quando Bompressi scappando dopo aver ucciso Calabresi mi disse nell’auto: “Che schifo!”. Mi confessai con don Bozzo, e lui nel darmi l’assoluzione mi avvertì che era solo il primo passo». Così nel 1988 Leonardo Marino decise di raccontare la sua verità ai giudici sull’omicidio Calabresi.

E oggi Leonardo Marino, fra una crêpe e l’altra, parla con i ragazzi come per il timore che qualcuno possa tornare a sbagliare. «Vanno aiutati a costruire il loro futuro, senza rovinare il loro e quello degli altri. Oggi, certo, quaranta anni dopo, nulla è paragonabile, non c’è più la catena di montaggio, la classe operaia è quasi scomparsa, soppiantata dal computer. C’è però la difficoltà delle famiglie ad arrivare a fine mese, e su quella c’è forse, di nuovo, il rischio che intervengano i cattivi maestri». Per fortuna, però, ci sono in giro anche i maestri buoni: «La Chiesa, con la forza della fede, può fare molto. Può aiutare i ragazzi a evitare che si ripeta la deriva di 40 anni fa. Dare una speranza, una prospettiva positiva alla presa di coscienza, all’ansia di giustizia, alla voglia di riscatto che rischia anche oggi di prendere strade sbagliate».