Come è noto, lo Stato sociale nella seconda metà del Novecento ha rappresentato un’istituzione volta al perseguimento di due obiettivi principali: per un verso, ridurre la povertà e l’esclusione sociale, ridistribuendo reddito e ricchezza (funzione di «Robin Hood») e, per un altro verso, offrire servizi assicurativi, favorendo un’allocazione efficiente delle risorse nel tempo (funzione di «salvadanaio»). A fondamento del primo obiettivo c’era l’intenzione di servirsi del potere politico per cercare di contrastare, almeno in parte, il successo dell’ordine dell’egoismo rispetto all’ordine dell’uguaglianza, per usare le espressioni di John Dunn. Per il filosofo della politica inglese, mentre l’economia di mercato capitalistica costituisce un formidabile meccanismo per organizzare l’ordine dell’egoismo, non c’è qualcosa di simile per organizzare l’ordine dell’uguaglianza: come far vivere le persone insieme in società senza che nessuno si senta umiliato, cioè percepisca se stesso come irrilevante. Ebbene, il tentativo di riuscire in tale intento attraverso l’uso del potere politico nella forma del welfare state, appunto, non ha sortito gli effetti desiderati, e in taluni casi ha peggiorato la situazione.
Alla base del secondo obiettivo, invece, troviamo una giustificazione tecnica ben precisa: l’incompletezza dei mercati assicurativi privati spinge necessariamente verso l’adozione di sistemi di assicurazione sociale gestiti dallo Stato. Lo strumento escogitato a tal fine è stato, fondamentalmente, il seguente: i governi usano il dividendo della crescita economica per migliorare la posizione relativa di chi sta peggio senza peggiorare la posizione assoluta di chi sta meglio. Sennonché tutto un insieme di circostanze – la globalizzazione e la terza rivoluzione industriale (quella delle nuove tecnologie info-telematiche, per intenderci) – ha causato, nei Paesi dell’Occidente avanzato a partire dagli anni ‘80, un rallentamento della crescita potenziale, cominciando a ridistribuire i risultati della crescita tra le diverse aree del mondo.
I risultati di questo modo di guardare al welfare sono sotto gli occhi di tutti. Non solamente il vecchio welfare state si dimostra incapace di affrontare le nuove povertà; esso è del pari impotente nei confronti delle disuguaglianze sociali, in continuo aumento nel nostro paese. Come rivela l’ultima indagine Censis, l’Italia è ormai diventata un paese caratterizzato da una «mobilità a scartamento ridotto»: le persone collocate ai livelli bassi della scala sociale hanno oggi maggiori difficoltà di un tempo a salire ai livelli più alti. Segno eloquente questo della presenza di vere e proprie trappole della povertà: chi vi cade – per ragioni varie, ivi compresa la responsabilità personale – non riesce più a uscirne. Oggi, la persona inefficiente è tagliata fuori dalla cittadinanza, senza che se ne riconosca la proporzionalità di risorse. In altre parole: la persona inefficiente (o meno efficiente della media) non ha titolo per partecipare al processo produttivo; ne resta inesorabilmente tagliata fuori perché il lavoro decente è soltanto per gli efficienti.
Quali indicazioni ci vengono dalla prospettiva del bene comune ai fini del disegno di un nuovo welfare?
Prima indicazione: è necessario superare le ormai obsolete nozioni sia di uguaglianza dei risultati sia di uguaglianza delle posizioni di partenza. Piuttosto si tratta di trovare il modo di declinare la nozione di uguaglianza delle capacità, nel senso di A. Sen, mediante interventi che cerchino di dare risorse alle persone perché esse migliorino la propria posizione di vita.
Seconda indicazione: è necessario superare l’errato convincimento in base al quale i diritti soggettivi naturali (alla vita, alla libertà, alla proprietà) e i diritti sociali di cittadinanza (da tutelare mediante le varie tipologie di servizi di welfare) siano tra loro incompatibili e che per difendere i secondi sia necessario sacrificare o limitare i primi. Come ben sappiamo, tale convincimento è stato all’origine di dispute ideologiche oziose e di sprechi non marginali di risorse produttive.
Terza indicazione: il principio di sussidiarietà è il fondamento del nuovo welfare, il quale deve conservare un impianto universalista, ma deve dirigere le risorse pubbliche per finanziare non già – come avviene oggi – i soggetti di offerta dei servizi di welfare, bensì i soggetti di domanda degli stessi. Infatti, il finanziamento diretto da parte dello Stato delle agenzie di welfare può alterare la natura dei loro servizi e farne lievitare i costi. Quando è lo Stato a scegliere i servizi o le prestazioni per i cittadini, necessariamente deve imporre standard di qualità, cioè standard regolamentativi avendo in mente un cittadino medio. Ne deriva, per un verso, la non personalizzazione del modo di soddisfacimento del bisogno, il che genera scontento (si rammenti che stiamo parlando di servizi alla persona); per altro verso, ciò provoca una lievitazione dei costi a seguito degli sprechi di qualità, poiché si offre un servizio che, per alcuni, è di qualità superiore alle reali aspettative (cioè superiore a ciò che il cittadino sceglierebbe se fosse libero di farlo) e per altri è di qualità inferiore rispetto alle reali esigenze. Ma soprattutto il finanziamento diretto da parte dello Stato tende a cancellare o a modificare l’identità dei soggetti della società civile. Ciò in quanto l’erogazione di fondi a tali soggetti li obbliga a seguire procedure di tipo burocratico-amministrativo che tendono ad annullare le specificità proprie di ciascun soggetto, quelle specificità da cui in ultima analisi dipende la creazione di “capitale civile” – che comprende l’assetto istituzionale democratico, il capitale sociale (fiducia), la capacità di produzione dei beni relazionali –, cioè quella risorsa immateriale (bene intangibile) che costituisce il vero fattore di progresso di una nazione.
Conviene precisare che se si vuole realizzare seriamente il principio di sussidiarietà non è sufficiente che esso venga declinato in termini verticali (Stato centrale e autorità regionali, provinciali, comunali) ma anche in termini orizzontali (istituzioni e società civile) e in termini “laterali” (fra soggetti di società civile). Ciò richiede – come auspicato da molti studiosi – che la direzione di marcia che dovrà segnare i prossimi anni vada nella direzione del passaggio dal welfare state al welfare society, ossia nella direzione di una società del benessere più autodiretta, più responsabilizzata, meno burocratizzata, meno compressa dall’alto, meno inquinata da un sistema politico che inquina la vita civile, e più giusta. Ciò vorrà dire, ad esempio, valorizzare le agenzie di servizio che nascono dentro la società a livello privato perché siano inserite all’interno di una programmazione pubblica di servizi e siano rispettate nella loro autonomia di azione e di gestione.




Cfr J. Dunn, Il mito degli uguali. La lunga storia della democrazia, Milano, Università Bocconi Press, 2006

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