C’è un’idea diffusa nella popolazione, un’idea meccanicistica della vita, della biologia, secondo cui una volta smontata quella “macchina” che è l’essere umano, o l’essere vivente, se ne capiscono tutti quanti i segreti: basta “sventrare” una cellula, prenderne il dna e analizzarlo insieme a tutti gli altri “pezzetti”. Questo permetterebbe di capire non soltanto i segreti di quella cellula, ma di tutto l’organismo e della vita in generale.
Questa è una visione ormai presente in tutte le scuole e in tutti i libri di testo. Ma ciò non vuol dire che sia corretta, anzi, non è per niente adeguata a quella che è l’esperienza della ricerca scientifica attuale. Ci sono diversi motivi per poterlo affermare, ma quelli principali sono due.
Il primo è psicologico-esistenziale e si potrebbe spiegare con un esempio. Quando si monta un orologio, non si può avere l’idea dell’oggetto che verrà fuori guardando solamente i piccoli “pezzetti” che si hanno davanti: i bulloni, le molle, le lancette e un po’ di numeri. Occorre avere presente a cosa servono quei “pezzetti” rispetto all’intero oggetto e alla sua finalità. Non è perciò smontando una cosa che se ne capisce l’uso e la finalità.
Il secondo motivo è biologico. Il dna, come sappiamo bene, non ha altro che una funzione di trasporto di informazioni, di cui la cellula ne userà solo alcune. In base a che cosa le userà o non le userà? In gran parte in base all’impatto dell’ambiente circostante, cioè delle cellule che ha vicino, e all’inquinamento, cioè alle sostanze con cui si trova a contatto.
Questi, in sintesi, sono i problemi nell’approccio dello studio della genetica moderna. Abbiamo chiesto al professor Carlo Bellieni di spiegarci, in modo accessibile anche ai non esperti, cos’è e perché questo tema è così importante da aver dato vita addirittura a una nuova branca della genetica, che si chiama epigenetica, e che studia appunto gli effetti sull’organismo delle interazioni dell’ambiente sul dna. E questo ha molta importanza anche nello sviluppo del bambino. Il professor Bellieni, pediatra, interviene sull’argomento.
Professor Bellieni, perché è così importante il tema dell’epigenetica?
Ci terrei prima a precisare meglio
Negli anni si è cercato di rispondere a questa domanda. Ora si sa che dal momento dell’inizio della vita dell’essere vivente, cioè dal momento della fecondazione, il contatto con l’ambiente circostante, che nell’essere umano è la tuba uterina, le cellule comunicano tra loro: la parete della tuba uterina dà dei messaggi alle cellule dell’embrione, l’embrione manda dei messaggi alla tuba uterina, le cellule dell’embrione tra loro comunicano. È un continuo scambio di messaggi che porteranno le cellule a differenziarsi. Man mano che l’embrione cresce, diventerà sempre più grande e man mano che diventa più grande iniziano a svilupparsi le prime cellule della pelle, del sistema nervoso, del sangue, ecc., tutte cellule con lo stesso patrimonio genetico ma con diverse caratteristiche. Queste gli vengono attribuite da messaggi arrivati dall’esterno. Ma come funzionano questi messaggi? Ogni messaggio fa stare zitti, “silenzia” si dice, alcuni geni.
Quindi in ogni cellula c’è lo stesso patrimonio di dna, però cambiano i geni che stanno “zitti”. Questi geni che stanno “zitti” in maniera diversa danno cellule diverse. Quindi è importantissimo questo contatto e questo scambio di messaggi. È importante perché fa capire che l’ambiente influenza il dna. Quindi non è vero che una volta che noi abbiamo letto il dna abbiamo capito con che cellula abbiamo a che fare. Abbiamo capito solo qual è la struttura portante. Come se noi di un orologio sapessimo distinguere solo le lancette e nient’altro.
Ora qual è il messaggio importante? Se è vero, come è vero, che il dna parla anche a seconda dei messaggi che gli arrivano dall’ambiente, ciò ha degli influssi importanti su tre questioni.
La prima riguarda la fecondazione in vitro, perché l’ambiente nel quale avviene la fecondazione in vitro non è assolutamente indifferente. Se una fecondazione avviene all’interno dell’utero materno ci saranno dei messaggi che arriveranno all’embrione diversi rispetto a quelli che arriveranno durante una fecondazione in un ambiente esterno, fatto in una provetta sottoposta alla luce, con iniezioni o sostanze che vengono date in maniera artificiale. Questo oltretutto spiega perché in bambini nati da fecondazione in vitro certe patologie sono più frequenti che nella popolazione generale.
Può fare qualche esempio?
Ci sono malattie genetiche importanti che si è visto che sembrano essere più frequenti nei casi di fecondazione in vitro, per esempio la malattia di Angelman. Inoltre è maggiore la possibilità che vi siano delle malformazioni, dei danni celebrali, delle nascite premature o con peso inferiore alla media.
E questo è dovuto al mancato “dialogo” di cui parlava prima…
Non solo. Talvolta c’è anche il fatto di far agire delle cellule, cioè spermatozoi o ovuli, che di per sé non potevano funzionare, e forse non funzionavano proprio perché era la natura che dava una barriera protettiva per non farle funzionare. Facendole funzionare è stata evitata la selezione naturale che le bloccava. Inoltre, spesso c’è un problema di età materna avanzata: nella fecondazione in vitro spesso è questo un altro fattore di rischio per la salute del bambino. Infine, spesso vengono impiantati troppi embrioni. In Italia fortunatamente c’è una legge che lo vieta, ma all’estero si possono impiantare anche quattro o cinque embrioni.
Parla della famosa legge 40?
Esattamente: la legge 40 che vieta questo eccesso di impianti.
Per tornare a quello che stavo dicendo, alle conseguenze che ha il riconoscere che il dna “dialoga” con l’ambiente esterno, abbiamo visto che la prima riguarda la fecondazione in vitro.
La seconda riguarda l’evoluzione della vita, perché si è visto recentemente che queste alterazioni, questi “silenziamenti” che vengono dati al dna dall’ambiente, invece di sparire al momento in cui si formano nella persona i nuovi gameti, cioè l’ovulo e lo spermatozoo, restano impressi e diventano talvolta ereditari. Questo significa che il meccanismo dell’ereditarietà dei caratteri non è più solo legato alla selezione naturale casuale, come voleva Darwin, ma anche all’interazione con l’ambiente.
Già tutta la teoria dell’evoluzionismo casuale zoppica per tanti motivi. Nelle scuole si insegna che noi deriviamo per una casualità dalle scimmie, che la giraffa ha allungato il collo perché a un certo punto non c’erano più le pianticelle basse e sono sopravissuti solo gli animali col collo lungo, e che in fondo c’è intrinseco nella natura un criterio di sopravvivenza del più adatto o del più forte, che poi ha anche dei risvolti sociali nel maltusianesimo e via dicendo. Questa teoria comincia però a scricchiolare anche sotto i colpi di queste nuove conoscenze, perché sapere che anche l’ambiente può dare dei messaggi al dna e che questi possono essere ereditari, dà la chiara impressione che l’evoluzione non avviene soltanto perché casualmente avviene una mutazione del dna e tra le diecimila mutazioni possibili sopravvive casualmente quella che si integra meglio con l’ambiente, ma che è invece l’ambiente stesso a indurre l’alterazione all’espressione del dna e non ai suoi geni.
Questo è interessante anche perché vari ecologisti ormai stanno spiegando che su questa base si incomincia a intravedere che questo scambio di informazioni tra ambiente e dna ha quasi una valenza finalistica. Non arrivano a parlare di creazione, ma arrivano a capire però che le cose si dirigono comunque verso un progresso, verso un qualche scopo che non riescono a identificare. Parlo di ecologisti importantissimi, il premio nobel Prigogine per esempio, oppure Enzo Tiezzi, che ha recentemente preso il premio nobel col gruppo di Al Gore. Costoro arrivano a dire che la vita si è evoluta sulla terra non in una forma casuale, ma in una forma stocastica, cioè in una forma in cui tanti cambiamenti casuali “inspiegabilmente” tendono verso un obiettivo ideale.
E l’ambiente, l’interazione tra dna e ambiente avrebbe proprio questa valenza: quella di comunicare reciprocamente verso un progresso reale, verso una finalità reale dell’evoluzione della vita.
Infine, la terza conseguenza ha a che fare con la clonazione e gli embrioni chimera, cioè creati usando parte del patrimonio genetico umano e parte del patrimonio genetico animale, e talvolta vegetale, perché si pensa che una volta cresciuti possano essere usati come donatori di organi. Anche in questo caso, l’alterazione del contatto con l’ambiente circostante può portare a delle alterazioni, che noi ancora non conosciamo, che potrebbero essere anche pericolose per
Per quanto riguarda la clonazione, si è visto molto bene che il fatto che possano nascerne degli individui sani è un’eccezione. Gli studi dimostrano che alcuni geni, infatti, si esprimono in modo diverso se provengono dal padre o dalla madre, e la clonazione elimina questa “genitorialità” genetica.
Lo stesso gene che fornisce, per esempio, il fattore di crescita si manifesterà nel bambino in maniera diversa, se arriva dal padre oppure dalla madre, perché il gene stesso ha avuto dal contatto con l’ambiente paterno o materno dei cambiamenti: questo si chiama “imprinting genomico”. Questo è importantissimo per lo sviluppo dell’embrione, tanto che alcuni geni devono assolutamente essere di provenienza maschile o femminile. Volendo fare un essere vivente soltanto con una cellula femminile o soltanto con una cellula maschile non si riesce per lo più ad avere un essere vivente nei termini sperati. Quindi si rischia di perdere tempo e risorse. Ci sono tante ricerche all’avanguardia che vengono fatte e che dopo anni non hanno portato risultati, come quelle sulle cellule staminali embrionali, che sottraggono fondi a quelle che servono, cioè a quelle sulle cellule staminali adulte, che si è visto funzionare.
Ecco queste sono le tre tematiche importanti che vengono da quest’osservazione iniziale: cioè che guardando il dna non si è capito né la vita, né a che cosa serva il dna stesso. Il dna si comincia a capire in movimento, cioè quando si vede come interagisce, come l’ambiente lo modifica, come l’ambiente gli dice di stare “zitto” in certe parti: questo lo trasforma in cellula di un tipo, piuttosto che di un altro. Ma se la cellula viene alterata da un ambiente che non è quello “tradizionale”, possono scaturire effetti di cui sinceramente la comunità scientifica si sta molto preoccupando: si stanno pubblicando moltissime cose sui rischi che si corrono.
Perché questa è una questione fondamentale? Perché anche un non addetto ai lavori dovrebbe interessarsi all’epigenetica?
L’epigenetica è semplicemente la modalità con cui l’ambiente agisce sull’espressione dei geni. E l’importanza che questa cosa ha è relativa alle tre tematiche di cui ho parlato e che sono molto attuali. Soprattutto fa capire che bisogna agire nella prima e nell’ultima (fecondazione in vitro e clonazione) con grande precauzione.
Non volendo bloccare la ricerca, bisogna che questa venga fatta con molta attenzione, senza mettere a rischio la salute della donne e dei bambini che sono così concepiti. E la questione dell’evoluzione è l’altro punto importante perché fa capire che non bisogna “bere” tutto quello che c’è scritto sui libri. Bisogna stare attenti, perché sui libri vengono semplificate le cose, talvolta in maniera eccessiva. Bisogna che la gente capisca che non è tutto vero quello che viene “passato” in questo modo: nella scienza esistono le teorie, che saranno pur più o meno accreditate, ma rimangono sempre teorie e quindi discutibili alla luce di nuovi fatti.