Alfred Memo è un ragazzino ugandese che ha visto davanti a sé i propri genitori uccisi e i loro corpi tagliati come carne da macello. Che idea della vita può farsi un bambino come lui? Che cosa può aspettarsi dal futuro? «Le prime volte che gli abbiamo chiesto che cosa avrebbe voluto fare da grande, ci ha detto che voleva fare il soldato, per ammazzare, come era stato ammazzato suo padre». A raccontare la storia di Memo è Rose Busingye, direttrice del Meeting Point International di Kampala, un centro dove vengono accolti e curati oltre duemila orfani per guerra o malattia, e altrettanti adulti, per lo più donne, molte delle quali malate di Aids.



«Il nostro primo lavoro è far capire a ciascuno di questi ragazzi che la vita ha un valore, che c`è qualcuno che li ama, e, banalmente, che vivere è meglio che farsi ammazzare». Non vale infatti, di fronte a Memo, l`obiezione che andando a fare il soldato rischia di essere ucciso per primo; a questo risponde dicendo «e allora?». «Quello di Memo sembrava veramente un caso disperato, e io stessa ero convinta di averlo perso. Invece sono andata avanti, continuavo ad andare a trovarlo, a scuola, a casa, per fargli vedere che c`ero, che veramente mi stava a cuore. Non si può dire una volta sola che la vita ha un valore, se poi non si affronta la fatica e il lavoro di continuare a far vedere che questo è vero. E io insistevo, ripetevo a Memo che adesso aveva una nuova famiglia, in cui era voluto bene». Ora Memo non parla più di fare il soldato; poco tempo fa in un disegno ha espresso quello che vuole fare in futuro: ha disegnato una casa grande, per i bambini che hanno perso i genitori come lui. «Un giorno – racconta ancora Rose – ho organizzato una gita al Nilo per i bambini, e avevo portato delle pentole per cucinare. Quando siamo arrivati, i ragazzi si sono buttati tutti in acqua: continuavano a giocare e divertirsi, e non volevano mangiare. Alla fine ho chiesto loro: “e adesso cosa facciamo con tutto questo cibo?”. È stato Memo a rispondere: “non sprechiamolo. Adesso telefono a casa e ci organizziamo per portarlo ai bambini che non hanno da mangiare”. Questo è Memo, quello che diceva di volerne ammazzare almeno dieci, come era stato ammazzato suo padre».



Anche la vita di molte donne malate di Aids è cambiata al Meeting Point International. Tra di esse c`è Vicky, autrice di una lettera bellissima, che l`associazione Avsi, di cui il Meeting Point è partner per l`Uganda, ha scelto come testo per lanciare lo scorso anno la campagna “Tende di Natale”, una raccolta di fondi che l`Avsi organizza ogni anno per sostenere le proprie opere nel mondo. In questa lettera racconta la propria storia di malata di Aids, abbandonata dal marito, sola e con i figli che non potevano più andare a scuola: «Non avevamo amore da nessuna parte del mondo. Non sapevo più se Dio esisteva davvero» racconta Vicky. «Nel 2001 qualcuno mi ha indirizzato al Meeting Point, dove ho trovate donne che facevo fatica a credere potessero vivere in quel modo pur essendo malate di Aids, tale era la gioia che portavano sul viso». Ora Vicky sta meglio, è volontaria al Meeting Point, e i suoi figli hanno ripreso ad andare a scuola.

«Di storie come quella di Vicky cene sono molte altre», racconta ancora Rose. «Sono storie di donne rinate, e anche di donne coraggiose. Come ad esempio Jovine, una donna di quarantasei anni. Una volta c`era qui un gruppo di giornalisti, che dopo avere visto queste donne rimasero molto colpiti e commossi, e pensarono di fare un gesto per aiutarle: comprarono cinque scatole di preservativi. Jovine prese in mano quelle scatole e disse: “c`è a casa mio marito che sta morendo, cosa me ne faccio di queste? I miei figli non hanno da mangiare, a cosa mi servono queste scatole?”. Li affrontò con un coraggio che nemmeno io avrei avuto». E qui c`è il segreto del “metodo” di Rose: non c`è nessuna risposta preconfezionata al dramma di queste persone. L`unica strada è quella di voler bene, di educare al valore della vita, e di responsabilizzare. Senza questa educazione, non c`è nulla che valga. «Anche il discorso della prevenzione» spiega Rose «non ha senso, se non li aiuti a scoprire il valore della vita. Altrimenti i nostri ragazzi – che hanno storie simili a quella di Memo – quando parliamo loro di prevenzione ci dicono: “e perché? Come noi siamo stati infettati, così anche noi infettiamo gli altri”. Partono da una considerazione della vita che è assolutamente pari a zero, sia la loro che quella degli altri».



Il metodo di Rose è vincente, anche dal punto di vista medico. Se ne sono accorti anche negli ospedali di Kampala. «Un po` di tempo fa – racconta Rose – l`ospedale di Stato sperimentò gratuitamente alcuni farmaci contro l`Aids, e presero un po` di persone da vari centri. Da me presero solo cinque persone, tra cui anche Jovine. Ebbene, le mie cinque persone furono le uniche a guarire. Allora dall`ospedale mi chiesero altre persone, e anche queste miglioravano. Non capivano il perché, e pensavano che, essendo io amica degli italiani, mi arrivassero alcune cure speciali dall`Italia. Io ho provato a spiegare che il punto è dare un motivo per cui valga la pena lottare contro la malattia. Loro mi dicevano: “sì, è molto bello”, ma come se fosse qualcosa di marginale. Volevano numeri per fare uno schema da applicare: tanti medicinali, tanti preservativi etc. Ma da noi non c`è uno schema».

I malati al Meeting Point, dunque, trovano un motivo per cui valga la pena guarire. Perché questo accada vengono organizzati gruppi di dieci pazienti, che si ritrovano per affrontare insieme le cure. Se una volta ce n`è uno stanco, che non vorrebbe andare avanti col trattamento, gli altri lo sostengono e lo incoraggiano. Oppure c`è chi inizia la cura e ha effetti collaterali pesanti: altri lo aiutano, anche semplicemente dicendo «è successo anche a me, poi è passato». «E una catena di aiuto, in cui sono i malati stessi ad essere responsabilizzati – spiega Rose – non puoi dar loro solo le medicine, anche perché spesso non le prendono».
E la responsabilità che matura in queste persone può raggiungere punte veramente commoventi. Come per Memo, che vuol dar da mangiare agli altri bambini e costruire una casa per gli orfani.

O come accadde ai tempi dell`uragano Katrina. Allora Rose parlò di questo evento con i malati del Meeting Point, leggendo un testo e facendo con loro un minuto di silenzio. «Ma un malato, che pesava circa trenta chili, si alzò dal fondo e mi disse: “con me non avete fatto solo un minuto di silenzio, mi avete anche aiutato concretamente”. Allora decisero di raccogliere un po` di soldi, e in quattro settimane misero da parte circa mille euro. C`era un giornalista scandalizzato che disse di non mandare negli Usa quei soldi, che servivano più a loro. Gli rispose una delle nostre donne, dicendo: “noi vogliamo amare come siamo stati amati, e il cuore è internazionale”. E da questa frase, tra l`altro, che è nata l`idea di chiamare il nostro centro Meeting Point International». Un punto d`incontro nel centro dell`Africa, dove si rinasce, e da dove si può addirittura decidere di mandare un po` di soldi negli Stati Uniti d`America.